PARTE  PRIMA

CAVE: IL TRENO IN PIAZZA.

   1) Poiché a nessuno interessano i miei ricordi, tranne che a me, racconto per me stesso, per passare i giorni che mi restano, facendo la cosa che di più mi è sempre piaciuto fare. Molte delle cose che dovrei raccontare le ho già raccontate; vi accennerò soltanto, per dare maggiore spazio a quelle taciute, non perché meno importanti, ma perché troppo personali e di nessun interesse per coloro a cui erano destinate. Perciò, siccome  sono esclusivamente mie,  non temerò di annoiare nessuno.

      Precisato questo, passiamo alle origini di una lunga vita, che mai, come a suo tempo racconterò, avrei mai immaginato così lunga. Oggi è il 28 ottobre 2009 (una data che a qualcuno nostalgico farà  palpitare il cuore, mentre a me risulta del tutto indifferente) e vivo

a Torino dove senza mai sospettarlo dovrò rassegnarmi a concludere i miei giorni.            

      Di recente ho concluso gli 87 anni e iniziato gli 88. E’ un giorno  come tanti in questo clima che non avrei mai immaginato così dolce. Nuvole leggere velano il sole, da poco  le  campane del campanile delle Suore hanno fatto seguito ai dodici rintocchi del mezzogiorno. Le campane e  il campanile sono di fronte alle mie finestre. A dividerci la via commerciale più che popolare San Donato, che doveva (come spero di raccontare) diventarmi così familiare.

      Le campane (ma dell’alba) dovettero salutarmi mentre aprivo gli occhi alla vita. Non pretendo di ricordarlo, né che le campane avessero un qualche cosa da spartire con la mia nascita. Era l’8 settembre 1922 (altra data bella e brutta per i nostalgici) e giorno di gran festa nella vicina Genazzano in onore della veneratissima Patrona Maria Vergine del Buon Consiglio: mi raccontava mia madre che nelle doglie del parto (non eccessive, immagino, dato che ero il quarto figlio) con le campane a festa avvertiva il rumore dei carri  che impennacchiati e infiocchettati si dirigevano a rendere onore alla Vergine; onore reso più solenne dalle spanciate e bevute di rito.

       Così i miei primi vagiti si confusero con quell’aria di mezza festa e all’anagrafe fui iscritto con tre nomi che la ricordavano: Mario Virginio Consiglio, da (la Madonna mi perdoni) Maria Vergine del Buon Consiglio. “Consiglio” sembra – ed è – un nome di persona strano. Non lo è  (o almeno  non lo era) a Genazzano e zone limitrofe come Cave, il mio paese di nascita, che mi ero dimenticato di nominare. Prima di passare ad illustrarlo, poiché lo merita, citerò il mio segno dello Zodiaco nel quale credo: Vergine. Il Porta – il grande poeta romanesco – lo definisce “stella avara” e posso dire con ogni possibile ragione che la definizione è sacrosanta. Con i pochi pregi e i tanti difetti che mi  ha attribuito, mi è stata tutt’altro che larga di  favori e di consensi. Di quella che poi viene chiamata “fortuna” è meglio non parlare. Favori e consensi ho dovuto procurarmeli con lacrime di sangue, come si dice... e come dimostra quello che mi accingo a raccontare.

  2) Cave, oggi, è un pressoché anonimo paese  a quaranta chilometri a sud di Roma, che s’incontra sulla strada per Fiuggi dopo Palestrina, ben più nota, antica e illustre, e prima di Genazzano. “Oggi” dicevo, ma non al tempo della mia nascita.

      Situata a 400 metri s.m., ricca di vegetazione e di un’eccellente acqua che dicono simile a quella di Fiuggi, è fresca d’estate, per cui, in tempi molto più modesti e meno pretenziosi di oggi, nella bella stagione era la villeggiatura preferita della media borghesia romana, a cui si aggiungevano  a volte le famiglie di alti ufficiali, attori della nascente cinematografia e perfino modesti aristocratici. Come quelli con cui si era imparentato  un fratello di papà, cioè lo zio Tito (del quale parlerò perché ne vale la pena e anche se questo  è avvenuto prima che io nascessi.)

      Per completare il modesto quadro che ne sto tracciando sarà utile non trascurare una caratteristica non comune. Per collegarlo con Roma, Cave era servito da una modesta ferrovia detta “delle Vicinali” che per percorrere i 40 chilometri impiegava – quando andava bene – due ore facendo fermate quasi a ogni chilometro in sperdute stazioncine e per la comodità di qualche “potente”, anche in qualche anonimo casello.

      Ma il più bello era che a Cave per raggiungere la stazione il trenino passava  in piazza a pochi metri dalla casa dove sono nato, un palazzetto tuttora esistente, dove a pianterreno c’era l’ufficio postale di papà e due piani sopra la nostra abitazione sovrastata dal terrazzo, cosa piuttosto rara a quei tempi.

      Poiché come vedremo lasciai Cave quando avevo circa quattro anni, di questa casa ricordo bene l’esterno, perché rivisto più volte “da grande”, mentre dell’interno ho soltanto vaghe “impressioni”. Niente dell’arredamento, che doveva essere molto modesto, anche se aggraziato dalle mani d’oro di mia madre. Del solo soggiorno, il tavolo rotondo al centro, coperto da un ruvido tappeto e sovrastato da un modesto lampadario a perline, secondo la moda del tempo, poi la scala di legno per salire al terrazzo e niente più.

      Il palazzetto, in posizione eminente sulla piazza, alla destra del cosiddetto Duomo, era attaccato alle case accanto con un archetto abitabile e con tanto di finestra, di proprietà di due zitelle sartine, una alta, segaligna e ridanciana e l’altra più piccola e dolce. Mi vollero molto bene. Ogni volta che tornavo a Cave per le vacanze mi facevano festa. Della più alta ammiravo la  bravura con cui senza scomporsi centrava la finestra aperta (era estate) con palline di saliva che finivano sulla testa di chi si recava all’ufficio postale che aveva l’ingresso sotto l’archetto.

      Ma torniamo a me che fasciato come una mummia  secondo l’uso del tempo perché non crescessi con le gambe storte,  ero intento a  poppare  il buon latte abbondante di mia madre. D’altro non mi occupavo. Unici diversivi, gli scherzucci dei fratelli, l’essere preso in braccio, la liberazione dalle fasce in cui potevo sgambettare liberamente mentre mi pulivano e il suono ovattato di una trombetta che, seppi dopo, era suonata dall’omino che in piazza precedeva il trenino fino alla stazione.

 

    3) Intanto il tempo passava. Stavo diventando “grande”. Avevo imparato a camminare, a parlare, a mangiare da solo, frequentavo l’asilo delle suore (mi rivedo sulle ginocchia della più curiosa che  ogni giorno mi interrogava su che cosa avevo mangiato la sera avanti) per fare posto alla nuova sorellina che nel frattempo era nata a sostituire quella che mi aveva preceduto e che era morta a sei mesi. (Perciò correggo quanto ho  scritto all’inizio:  con me mia madre partoriva il suo quinto  figlio.)

      E già che ci siamo, prima di continuare la narrazione, sarà bene che io chiarisca il motivo per cui non parlo mai del primogenito. Era “la croce” dei miei genitori, l’ombra che oscurava  la loro felicità di avere tanti figli e tutti belli e sani (tranne Latina, forse la più bella, nominata da poco, comparsa e  presto sparita.)

      Per tornare al primogenito, nato otto anni prima di me e che si chiamava Raffaello, era malato senza speranza, almeno per allora, da tutti i più famosi luminari del tempo che costituirono la via crucis del povero ragazzo. Il quale, colpito da una insolita  quanto grave malattia in tenerissima età – encefalite letargica, conseguenza, pare, della terribile spagnola - ora giaceva in un letto dove trascorreva il tempo istupidito da un sonno pressoché continuo.

      Tornando a me, non avevo ancora quattro anni allorché mi accadde un fatto che poteva diventare tragico e che a ricordarmelo generò un “sogno ricorrente” destinato a perseguitarmi in gioventù, un po’ meno nella maturità e rarissimamente oggi.

      Ecco “il fatto”, vago e inspiegabile in sé, ma nitidissimo  nella sua tragicità.  Nitidi sono tre tempi, nel ricordo, slegati ma conseguenti tra loro. 1- E’ estate, fa gran caldo e nell’assolato grande piazzale da cui si partono tre strade, due che per direzioni diverse scendono al centro del paese e la terza che scivola verso la Fonte,  non. si sa come e perché sono solo. Spirito di indipendenza? Protesta perché con la nascita della sorellina e “caduto dalla seggioletta”, come si dice a Roma, ho perduto i privilegi riservati al “più piccolo”? Oppure ho “scelto la libertà” sfuggendo alla ragazzetta incaricata di sorvegliarmi  e impegnata con un coetaneo più interessante di me? Mi vedo dirigermi verso un angolo del piazzale dove c’è  un piccolo fontanile di pietra riempito da un generoso getta d’acqua fresca. Devo avere sete.  2- In un brevissimo flash mi vedo salito non so come sull’orlo della vasca a parallelepipedo forse con l’intenzione  di dissetarmi al getto d’acqua. Il resto è facile da immaginare. Cado nella vasca, qualcuno mi soccorre e mi ripesca e forse una donna delle vicinanze mi asciuga e data la stagione mi riveste con un grembiule più piccolo della mia misura.

   4)- Mi rivedo in modo nitido  nel terzo tempo, di nuovo solo e diretto verso casa camminare rasente ai muri pieno di vergogna per il timore che chi m’incrocia si accorga che sotto quel grembiule troppo piccolo sono nudo. Un pudore che oggi potrebbe sembrare eccessivo per un bambino di quell’età. Ma la vergogna che provavo mi è rimasta viva.

Il trauma dovette essere tale che continuò a perseguitarmi a livello psichico con i sogni ricorrenti a cui ho accennato. Senza un motivo, a distanza di mesi e a volte di anni mi trovo all’improvviso davanti o con persone importanti che mi mettono soggezione, nudo e coperto soltanto da una striminzita canottiera che tirata davanti si alza di dietro e viceversa. Il bello o brutto che sia è che ogni volta mi studio vanamente di passare inosservato! Il sollievo al risveglio si può immaginare.

      Poiché della mia primissima infanzia non ricordo altro, passo al giorno in cui una specie di catastrofe sembrò abbattersi sulla nostra famiglia: papà era stato trasferito in un paesucolo della costa tirrenica chiamato  Ladispoli. Quando mi spiegarono che quel paese era lambito dal mare che non avevo mai visto, smisi di piangere con gli altri e trovai che la notizia non era poi tanto brutta.

 

   5) – Santa innocenza! Ma d’altra parte non potevo immaginare e tantomeno capire quali colossali difficoltà comportasse quel trasferimento. Prima fra tutte, che da un paese pieno zeppo di parenti andavamo a vivere  in una località  popolata da sconosciuti, vicino alle altrettanto sconosciute e non certo di buona fama che erano le paludi. Seconda – ma certo  la più importante – era come trasferirvi Raffaello tuttora gravemente ammalato senza speranza.

      Ci soccorsero i nonni materni e quella santa creatura di zia Felice ribattezzata “zia Felicetta”: avrebbero tenuto loro Raffaello. Il caro infelice ragazzo non avrebbe dato troppo fastidio. Tutte le cure possibili erano state fatte, avrebbe continuato a mangiare poco e a dormire tanto, finché a liberarlo non fosse arrivato il sonno eterno. Non capivo. Tutto mi sembrava così semplice. Non capivo tutti quei pianti e mia madre che sembrava una tigre a cui vogliano togliere il più amato dei suoi cuccioli.

      I nonni, che si chiamavano lui Giuseppe e lei Maria, lui baffuto, lungo e magro, taciturno, lei piccola, ciarliera, con la treccia che la incoronava come una regina delle favole, tentavano di rassicurare mamma. Non aveva fiducia in Felicetta che avrebbe tenuto Raffaello nella sua camera accanto alla macchina della maglieria (con cui sapeva confezionare capi apprezzatissimi) “e quando lavora canta?” Non mi sembrava poco, anche  se da piccola  una brutta malattia le aveva imbrogliato le gambe e ora le faceva dire ridendo (era sempre allegra) “Lo sai perché mi è successo? Ho ballato troppo!”

      Zio Tito, il fratello di papà, che era un pezzo grosso alle Poste e venne per dire che non gli era riuscito di non far trasferire papà, non andò neppure a salutare Raffaello. “Da quello che ti vuoi aspettare?” disse  mamma con il veleno nella voce.     

      A mamma zio Tito non era simpatico e da quel che mi raccontò molti anni più tardi non aveva tutti i torti.

      Per mamma zio Tito era “il marito della baronessa”. (Riassumo) Una baronessa vera. Il padre – barone Tholosano di Valgrisanche – faceva parte di quella piccola aristocrazia romana che ogni estate veniva a villeggiare a Cave, dove per l’occasione prendeva in affitto sempre la stessa modesta villa. Faceva parte della sua famiglia la baronessina Virginia, graziosa,  alta, longilinea, di intelligenza modesta ma dal portamento aristocratico. Zio Tito che aveva “il pallino” dell’aristocrazia se ne invaghì. Virginia lo gradiva, il padre no, e prese a considerarlo con la simpatia di solito riservata a una mosca nella minestra.

      Zio Tito non si arrese. Stava facendo carriera nella burocratia (troppo poco) ma prese a sfoderare  una nobiltà decaduta testimoniata da un doppio cognome da riscattare, un albero genealogico che risaliva alle Crociate, un Beato  in famiglia  che  tuttora si venerava a Montepulciano... (da non sottovalutare le origini toscane della stirpe!) Il. barone ribatteva: di rispetto l’antichità, ma troppo modeste le condizioni attuali per una  nobildonna valdostana. Perciò se la fosse tolta dalla testa,  la baronessina, che d’ora in poi da parte sua non avrebbe più dovuto  vedere il troppo  modesto pretendente.

      I due innamorati erano alla disperazione. Virginia praticamente prigioniera dentro l’alto muro che recingeva la villa; divieto di accostarsi al cancello; il custode addetto alla sorveglianza con il fucile pronto per impallinare il giovinastro se si fosse accostato.

      Zio Tito, disperato, si confidò con la madre. Perché non ne parlava con lo zio? Era vecchio, ricco e molto autorevole (nientemeno che  “avvocato concistoriale”), una potenza in Vaticano, vicino al Papa, al quale erano devotissimi gli aristocratici del tempo.

      Fu un’illuminazione. Lo zio gli voleva bene, la sua eredità lo avrebbe fatto ricco e ricchissimo se  come contava di saper fare lo avesse raggirato. Con quella prospettiva entrò in fibrillazione: Avvertire. subito. l’amata. Ma come? Era giovane e agile: avrebbe scalato l’alto muro. Di notte. La camera di Virginia dava su un balconcino di non difficile accesso... Tutto sommato, era semplice.

      Passò all’azione la notte seguente. Era notte fonda, non c’era la luna, non si muoveva una foglia, unico rumore il frinire dei grilli. La scala di cui disponeva non era altissima, ma una volta in cima, scavalcare il muro sarebbe stato  uno scherzo e altrettanto traslocare la scala dall’altra parte. Tutto andò secondo il previsto, cioè a meraviglia. Girato di spalle aveva già iniziato la discesa della scala quando  con una detonazione si sentì investire da una raffica di  pallini infuocati in quella parte del corpo  che ci serve per sederci e altro. Fu tale il dolore che credette di essere morto. Allentò la presa e precipitò svenuto.

      Si risvegliò all’ospedale, steso bocconi. Non era morto, ma ancora dolorante e pieno di vergogna, dato che tutto il paese adesso rideva di lui. Il custode, come il barone gli aveva suggerito, dichiarò che aveva scambiato il giovane per un ladro. I pallini gli furono estratti e sua madre, che era colei che vedeva accanto al suo letto dal primo momento e lo aveva subito rassicurato dicendogli che non c’era niente di rotto e si sarebbe rimesso presto, gli portò la notizia che “lo zio” era stato avvertito e che aveva deciso di intervenire. Questo lo consolò. Dopo una settimana poté togliersi dalla scomoda posizione e finalmente  rivedere l’amata Virginia piangente di commozione ma felice. Il babbo aveva acconsentito a quella visita e presto sarebbe venuto anche lui.

      Mantenne la promessa e per Tito fu come conoscere un altro. Cordiale, spiritoso, accomodante. Come aveva fatto una persona intelligente come lui a mettersi a quel brutto rischio? Solo allora lui aveva capito di quale intensità fosse  l’amore che portava a Virginia. Era quello che aveva detto anche con l’Avvocato – che persona squisita, che gran signore! – andato a incomodarsi così malandato in salute da avere il suo medico di fiducia accanto. Sarebbe andato lui di persona, il barone, se solo Tito  gliene avesse parlato...

      Tito capì che il barone aveva sentito l’odore dei soldi e che lo zio aveva in mente di fare quello che sperava: nominarlo suo erede. Così, appena rimesso in piedi corse da lui. Era a letto e da quel che poteva capirci, agli sgoccioli. Lo ringraziò con tutto il fervore possibile: merito suo se il miracolo era avvenuto. Ma davvero poteva sperare... L’ammalato, grave ma tuttora lucidissimo gli. Erano figli di sua sorella e lui, Tito, l’unico nel quale  poter sperare per ridare lustro alla famiglia con un matrimonio aristocratico. Aveva fatto bene a venire, voleva parlargli della ripartizione: un contentino per le ragazze che se ne sono andate in America. Era piuttosto del cospicuo  lascito per Gigi che  voleva parlargli. Con tutti quei figli che certo avrebbe voluto far studiare....

      Tito era sbiancato. Una grossa fetta di torta che se ne andava. Doveva correre ai ripari, se ancora era in tempo. Disse se ci aveva pensato bene, il caro zio. Conveniva sminuzzare il capitale? I notai, gli avvocati, le banche... Avrebbe potuto pensarci lui a far studiare quei ragazzi... sempre che lo avessero meritato.  Il vecchio lo guardò con gratitudine. Questo voleva dire facilitare le cose. Aveva fatto bene a parlargliene. Davvero avrebbe fatto questo? Tito si mise la mano sul cuore: poteva giurarglielo sul Vangelo!

      Seguirono giorni di ansia felice. Nessuno osava dirlo, ma pur parlando di nozze si dava per scontato che sarebbero  state celebrate “dopo”. “Mai precipitare” diceva saggiamente il barone. Ma intanto le ricamatrici del corredo furono  sollecitate a fare presto; i bollettini medici sulla salute dello zio venivano passati di bocca in bocca e ogni segno di peggioramento veniva salutato con sospiri di sollievo e mai decesso ebbe tante manifestazioni di gioia. Se qualche lacrimuccia ci fu, la si versò per la insperata sollecitudine con cui il buon vecchio si era tolto di mezzo.

      Acquisiti i diritti  ereditari sanciti dal testamento, papà rassicurato da zio Tito prese atto (senza contarci troppo) delle promesse e le nozze furono celebrate con un fasto che noi ci  limitammo a immaginare perché troppo modesti non fummo invitati. Compreso papà, ho motivo di credere; ma se avvenne l’ho dimenticato.

      Altrettanto affidata  all’immaginazione la nuova vita degli sposi in una casa riempita con il meglio della casa principesca dello Zio (quadri di buona fattura, mobili da antiquariato, “il salotto cinese”, libri con molte edizioni rare, una statua in bronzo a grandezza naturale di un alipede Mercurio che in atto di volare  recava una lampada, ecc. ecc.  – tutte cose viste molti anni dopo e ormai passate di moda).

      Ci fece strabiliare  la somma in liquidi ereditata: trecentocinquantamila lire  in un’epoca in cui con una lira e qualche centesimo si mangiava in abbondanza. Il denaro profuso in viaggi, crociere, acquisti principeschi nessuno venne a raccontarceli. Ci giunse la notizia della nascita dell’erede Mimmi (Domenico) e più tardi la sua iscrizione al Collegio dei Principi di Mondragone (da cui poi si fece cacciare per scarso rendimento e indegnità varie.)

      In pochi anni i “liquidi” ereditati furono  bruciati. C’è una foto cartolina indirizzata a zio Tito e tornata a noi non si sa come. Rappresenta tre bei bambini: Pietro già un ometto di sette anni (da piccolo era così bello che a causa di capelli ondulati era spesso scambiato per una bambina; un bel giorno – ci raccontava mamma - , offeso di nuovo nella sua dignità di macho, corse a casa, si chiuse nel bagno e con un paio di forbici giustiziò i riccioli galeotti); alla sua sinistra, cioè in mezzo, io, pupo di circa un anno, e appresso Liliana, signorinetta di cinque anni. Era un pro-memoria per lo zio, di chi  ancora non aveva visto  un centesimo? La foto cartolina tornò a noi perché forse respinta al mittente? Non c’era niente da ricordare. Con aria di circostanza lo zio Tito confessò che avevano detto addio alle ultime  preziose lire con un favoloso viaggio ai Laghi. Perciò, dopo aver esortato il fratello a non ripetere i suoi errori, concluse a mo’ di incoraggiamento d’essere sicuro che come Gigi era bravo a dare vita a  tanti bei figli sarebbe stato altrettanto bravo a farli crescere con l’aiuto di quella “brava contadina” (dall’alto delle sue costanti pretese aristocratiche la figlia di un modesto proprietario terriero non poteva essere qualificata che “contadina”) che si era scelto. Malgrado tutto, che fosse partito fiducioso per la nuova destinazione: se non si fosse trovato bene, il suo aiuto non gli sarebbe mancato.

      Così partimmo, noi figli ignari di tutto e emozionati della novità, mamma stravolta per Raffaello e piena di rancore verso il cognato e papà rassegnato a rimboccarsi le maniche e a lottare da quel leone taciturno che era.

PARTE SECONDA

LADISPOLI   -   MARE  AMARO

  1)-  Procedendo a piccoli passi verso i cinque anni i  ricordi si fanno un poco più nitidi, anche se slegati e parziali.

      Per esempio mi si è cancellato il primo incontro con il mare. Probabilmente fu giudicato tanto grande da incutere soggezione. Quello che dovette colpirmi fu l’odore di alghe, di salsedine, di iodio, di mucillagine che rendeva viscidi gli scogli; un odore che non avrei più ritrovato negli anni successivi, forse perché in nessun caso si trattava di un mare incontaminato come quello.

      Dopo il tanto verde di faggi e castagni che avevo lasciato, i pochi eucalipti e i contorti pinastri che ornavano quelle rive e quella plaga desolata mi parvero ben povera cosa. Il paese quasi non esisteva. Quattro case, tra cui quella spoglia (fornita soltanto dello stretto necessario) dove abitavamo con  le finestre  rivolte all’entroterra dove spiccava solitaria la trillante stazioncina a cui ogni tanto rendeva omaggio uno sferragliante trenino.

      Altrettanto disadorno l’ufficio postale, un negozietto, con annessa salumeria, una pescheria, un ciabattino e poco altro. Niente che facesse  presagire la cittadina di oggi che in estate si affolla di bagnanti. Dimenticavo una modesta villa a poca distanza. Era la dimora della duchessa proprietaria di gran parte di quelle terre. Ricordo di averla vista qualche volta all’ufficio di papà. Niente che la rassomigliasse alle duchesse come le immaginavo. Di mezza età, non particolarmente elegante, linguacciuta, un po’ sbruffona, sempre attorniata dai cani che adorava e ai quali (a un Istituto per Cani) avrebbe lasciato tutte le sue ricchezze. A papà che le opponeva quanto avrebbe fatto meglio a pensare ai tanti poveri altrettanto meritevoli replicò con una serie di insulti pochissimo aristocratici.

    2) - Non ricordo con precisione la data del nostro arrivo, ma doveva essere di fine estate perché Pietro e Liliana si preparavano a frequentare la “pluriclasse” della scuola rurale e le giornate di sole già fresche erano dolci per delle soste sulla riva popolata  da volenterosi pescatori intenti a confezionare nasse e reti e cesti per sistemarci il pescato nelle località vicine. E ogni cosa per me aveva sapore di novità.

      Quello che letteralmente mi affascinò fu una deliziosa casa di legno che su palafitte  sembrava sorgere dal mare che la  lambiva sui pali come un cane amico, tutta merletti di legno a nascondere le grondaie e una scaletta altrettanto ornata che partendosi dalla riva conduceva a un terrazzino e  alla porta d’ingresso.

      Ad abitarla era un solo strano uomo che chiamavano “il Matto” e da cui i pescatori mi dicevano di stare alla larga. Magro, un po’ curvo, aveva capelli lunghi e barba brizzolata, occhi sfuggenti e una cravatta a fiocco che più tardi scoprii di moda fra gli artisti dell’Ottocento.

      Mi dissero che era pittore e secondo alcuni anche bravo. Ogni tanto, a distanza di mesi, arrivava un camioncino a portar via un carico di tele accuratamente imballate. Mi incuriosiva e anche stando a distanza lo seguivo nei suoi andirivieni e soprattutto mentre  lavorava sul terrazzino davanti al mare. Di sostanziale c’era che non capivo in che consistesse quel lavoro; come potesse, cioè, con quei soli pennelli rubare la luce al sole e l’azzurro al mare per trasferirli  in quei suoi  quadri.     

       Su questo ricordo a cui ho cercato di dare un senso se ne sovrappongono altri. Pietro che ci comunica di aver parlato col Matto e di non averlo trovato quell’orco che sembrava, i timori di mamma, le raccomandazioni di papà e finalmente – questo del tutto nitido – il giorno in cui salii con Pietro la scaletta ed entrai in quella casa-giocattolo che mi sembrò arruffata come la chioma del pittore che doveva essersi appena alzato. Parlava poco e a scatti, ma io, frastornato,  non avevo occhi che per gl’innumerevoli quadri appoggiati un po’ dappertutto e dall’odore  di trementina che era del tutto nuovo per me.

      I quadri, che allora mi parvero opera di magia e ora considero “di maniera” e del tutto superati, erano a soggetto unico: il mare. Albe e tramonti, in bonaccia e in tempesta, qualche barca in controluce e cieli mai limpidi, con nuvole leggere o più spesso arruffati in un contrasto di ombre e luci.

     Impressionato, me ne distaccai a fatica. Il mare sciabordava sotto la scaletta e lo guardavo preoccupato: “Il mio amico oggi è di malumore” ci disse a mo’ di saluto il pittore. Capii che  “il mio amico” era il mare.

    3) – “Il suo”, perché mio, ad onta della sua bellezza e dei tesori di alghe e  conchiglie che da gran signore gettava a profusione sulla spiaggia, allora non lo diventò. Per la sua imprevedibilità. Si addormentava la sera calmo e tranquillo ronfando come un micione sazio e si svegliava la mattina dopo infuriato come se gli avessero fatto chissà che sgarbo.

      D’altra parte, con la stagione che cambiava, anche il mare cambiava  colore e abitudini: Il suo bell’azzurro dell’estate era diventato quasi grigio; il suo bell’aspetto pacioso e tutto un brillìo sotto il sole si era trasformato in un arruffio di onde che sembrava voler gareggiare  con quello delle nuvole sempre più fitte e minacciose. La spiaggia era deserta a perdita d’occhio, le barche rovesciate sulla sabbia eternamente bagnata e inutile per ogni sorta di giochi, mentre le reti pendenti dai pali avevano sempre più l’aspetto di capelli abbandonati dal pettine.

      In qualche raro periodo di bonaccia qualche coraggioso peschereccio azzardava un’uscita al largo e se tornava carica di pescato il paesucolo assumeva un’aria di festa, la pescheria si colmava di pesce ancora vivo e di compratori che per pochi spiccioli si garantivano un po’ di abbondanza.

      A me queste cose interessavano poco, un piatto a tavola mamma ce lo faceva trovare sempre e a volte mi chiedevo come facesse. Mi annoiavo a guardare la pioggia rigare i vetri mentre beati loro Pietro e Liliana avevano i compiti da fare. Il piazzale era un pantano fangoso  e a me non restava che intrattenere Siria che però era ancora troppo piccola  per  dare dei calci alla palla mezza sgonfia.

      Una mattina il mare ci fece una sorpresa dopo avere infuriato tutta la notte. Aveva allagatola strada, il piazzale e i prati fino alla ferrovia. Lo spettacolo del tutto nuovo creò in noi ragazzi una certa euforia. L’acqua non aveva raggiunto i binari, per cui  l’eterno campanello trillava e quando il treno passava, dalle nostre finestre sembrava scivolare sull’acqua di un lago, il che ci divertiva moltissimo.

      Un po’ meno ci divertirono le notizie che a poco a poco arrivavano: il mare aveva riempito le cantine, i magazzini, le case del pianterreno e allagato anche l’ufficio postale e  papà, mamma, Pietro e Liliana avevano dovuto buttare fuori l’acqua con la scopa e mettere in salvo i sacchi della  per fortuna scarsa corrispondenza.

      Mi vergognai del divertimento provato e con ben altro spirito accolsi l’increscioso fenomeno quando si ripeté. Fu la duchessa a  dirci sbraitando che ad ogni autunno era la stessa storia e che alle sue lettere di protesta facevano i ciechi e sordi come talpe quei rospi del Comune!

      Intanto si avvicinava Natale, forse il più squallido che io ricordi. Per tutta luminaria un filo di piccole lampadine multicolori alla sporca vetrina del negozietto già nominato.

      Del successivo inverno ricordo il gran freddo e i geloni ai piedi e alle mani. Senza un caminetto da accendere, il riscaldamento era inesistente tanto a casa che in ufficio. Si andava avanti con pestilenziali bracieri a carbonella e lo scaldaletto per togliere  un po’ di umidità alle lenzuola e alle fumanti coperte. Per dormire mamma “ci vestiva” con quanto di caldo riusciva a trovare.

      Insomma una vita da cani. Una notte il freddo era tale che mamma e papà  pensarono di portare  Siria con la bronchite nel loro letto e commisero l’imprudenza di lasciare il braciere per tenerla calda. La bambina salvò loro la vita svegliandoli con le sue urla, provocate dalla difficoltà di respirare non solo a causa della bronchite. Avvertirono subito il tanfo dell’anidride carbonica, nausea e atroce mal di testa. Papà, anche stordito, spalancò le finestre e portò fuori il braciere.

 

     4) - Come Dio volle l’inverno passò portandosi via geloni, raffreddori, tossi e bronchiti. Ma ormai stava maturando nei nostri genitori la convinzione  che così non si poteva andare avanti e che urgeva chiedere un altro trasferimento se non volevamo distruggerci in quella plaga desolata dove non c’era un medico e il prete si sentiva punito quando doveva venire a dire messa per le feste a Ladispoli.

      Fra le tante difficoltà, c’era anche quella di raggiungere il mai dimenticato Raffaello. Mamma non nutriva dubbi sulle cure prodigate al suo ragazzo dai genitori e da zia Felicetta, ma almeno ogni quindici giorni lei doveva andare a Cave a rivederlo. E questo voleva dire impiegare ogni volta mezza giornata con due treni-lumaca, per di più rari, uno per raggiungere Roma e l’altro per arrivare a Cave. E da sola, perché o lei o papà erano indispensabili in ufficio.

      La volta che ne combinai un’altra delle mie era di turno papà che pensò di portare me per compagnia. Con un “pensiero” che sapeva gradito volle portare un cesto piatto e rettangolare, dove su un letto di alghe e frammenti di ghiaccio guizzava un assortimento di pesce ancora vivo. Alla stazione delle Vicinali io avrei fatto la guardia al cesto mentre lui avrebbe approfittato dell’intervallo per andare a un negozio vicino  a comprarsi un cappello nuovo. Dire che mi sentivo molto fiero dell’incarico è poco.

      La nuova stazione di Roma  era ancora di là da  venire. Era quella che pochi ricordano, con  l’orologio in alto sulla facciata, divenuto classico per gli appuntamenti: “Ci vediamo alla tale ora sotto l’orologio”. E la stazione delle Vicinali non  ancora arretrata aveva la sala d’aspetto dove oggi termina la grande pensilina.

      C’era poca gente. Papà mi sistemò il cesto, che aveva preso a lagrimare, sotto un sedile e mi disse: “Siediti qui e non ti muovere. Io vado in un negozio qui vicino – e mi indicò i portici di fronte. “Torno presto”. E conoscendomi ripeté: “Prometti che non ti muovi?” Accennai di sì col capo e lo seguii con gli occhi mentre affrontava il traffico che non è certo quello di oggi ma ugualmente caotico e sostenuto. Meno macchine, niente autobus ma tanti carri e tantissime carrozze a cavalli.

      Avevo cinque anni scarsi e non sapevo contare, altrimenti avrei contato i secondi che sono tanti in un minuto. Così ogni minuto mi sembrava un’eternità. Cercai di distrarmi a pensare che nel negozio ci fosse tanta gente, oppure che il cappello glielo stessero facendo sul momento. Chissà se ci avrebbero messo la piumetta che tanto mi piaceva come nel cappello del duca quando andava a caccia. Comunque di tempo ne stava passando parecchio, forse un’ora. Perché papà non tornava?

      Mi feci sull’uscio. In fondo i portici non erano tanto lontani e quelli che credevo negozi avevano le porte a vetri e mi sembrava di vederlo papà col cappello nuovo e come si sarebbe divertito alla sorpresa che gli facevo. Scesi lo scalino e mi infilai in un po’ di spazio libero e decisi di chiudere gli occhi e di procedere. Mi sarebbe piaciuto chiudere anche gli orecchi allo stridio di qualche freno, al nitrito dei cavalli, alle imprecazioni dei cocchieri. Forse mi stava capitando come mamma mi aveva raccontato che era successo agli Ebrei e il mare si apriva per lasciarli passare.

      Quando riaprii gli occhi ero dall’altra parte sotto i portici. Dalla precisione con cui ricordo l’episodio l’emozione dev’essere stata grande. Tuttavia fu  con l’incoscienza dell’età che mi misi a sbirciare nelle porte a vetri. Oggi penso che si trattasse di un grande ristorante, perché al di là del vetro c’era sempre una tendina a impedirmi di vedere.

      Così i portici finirono e all’angolo di quella che poi avrei conosciuto come via Cavour c’era un’edicola di giornali e rassegnato (e con la solita incoscienza) mi fermai a guardare le figure colorate. L’edicolante dovette notarmi, deve aver osservato dove fosse l’adulto con cui ero e non vedendo nessuno uscì fuori dallo sgabuzzino: “Bambino, che fai tutto solo?”  “Cerco papà” “E papà dov’è?” Stavo per rispondergli quando mi volsi verso la porta della sala d’aspetto e vidi papà che a testa bassa vi entrava: “Eccolo!” esclamai tutto contento.

      L’edicolante, senza preoccuparsi dell’edicola che lasciava incustodita, mi prese per mano e mi ricondusse da papà. Dalla sua faccia stravolta e da come si asciugava il sudore dalla fronte capii di averla combinata grossa. Lo sentii dire all’edicolante che era la quinta volta che entrava e usciva a cercarmi e che temeva di avermi perduto. Mi aspettavo una grossa punizione che non venne.

   Più tardi tenendomi stretto a sé quasi che potessi scappargli di nuovo mi disse con aria colpevole: “A mamma è meglio che non glielo diciamo della birbonata che hai fatto”.

      Di quella visita a Cave ricordo ben poco, forse perché ho “voluto” dimenticarla in quanto – senza che allora lo immaginassi – fu l’ultima volta che vidi Raffaello. Mi sembrava sempre lo stesso e sempre più magro. Rifiutava con ostinazione il cibo, raccontavano i nonni, e questo secondo il dottore non era un bene. Andai a trovarlo con la speranza di potergli parlare del mare. Era nel solito letto nella camera di zia Felicetta che lavorava alla sua macchina per la maglieria seguendo la spola elettrica che andava avanti e indietro ed era, o sembrava, particolarmente allegra. Quella mattina, diceva, Raffaello aveva mangiato una fetta biscottata con il latte e perciò sarebbe presto guarito.

      In mezzo a loro c’era la finestra aperta attraverso cui entrava l’aria buona della primavera. Raffaello mi guardava con il suo solito sorriso dolce, ma fisso, assente e doloroso. E a me veniva da piangere perché provai con quello che  gli volevo dire, ma non mi seguiva e mi interrompeva con dei farfugli che non riuscivo a capire. Per cui, per non scoppiare a piangere, d’improvviso girai le spalle e scappai via.

      Tutto questo in un flash rapidissimo, molto più breve di quanto ci abbia messo a raccontarlo. Dopo tanti anni nel ricordo Raffaello rattrappito nel letto era uno scheletrino ricoperto di  pelle troppo bianca.

 

 

   5) - E finalmente papà era riuscito a farsi trasferire. Ci anticipò che si chiamava Orte Scalo, a nord di Roma, che era una piccola borgata molto importante come nodo ferroviario da cui si partivano i binari verso tre direzioni; la più importante per Firenze, la seconda per Ancona sull’Adriatico e la terza, meno importante, per Civitavecchia sul Tirreno. Ci passava un importante fiume, il Tevere, che attraversata Roma si andava a gettare nel Tirreno poco lontano da Ladispoli.

      Confesso che allora ci capii molto poco, ma poco m’importava. Peggio di Ladispoli non poteva essere quel paese che secondo papà non era un vero paese in quanto la popolazione era formata di ferrovieri di tutta Italia che con le famiglie andavano e venivano, e  siccome potevano spendere c’erano diversi negozi, un bar, una rivendita di Sali e Tabacchi (importante per papà che era un fumatore accanito) e un paio di alberghetti per chi non voleva spendere troppo, tanto di treni per Roma ce n’erano tanti da Firenze e da Ancona e con un’ora ci si poteva arrivare. Importante per me che stavo per compiere i sei anni. Sarei andato a scuola in un corso  regolare di cinque anni, niente scuola rurale, niente pluriclasse. Insomma, per me, doveva trattarsi di quasi una città.

      Il trasloco sarebbe avvenuto all’inizio dell’estate e vivevamo in una gioiosa attesa.

      Quel giorno da ricordare era di non so che festa, avevamo non ricordo che ospiti, il tempo era splendido, adattissimo per una passeggiata lungo la spiaggia al solito quasi deserta e l’aria odorava  di mare mosso, con onde lunghe e schiumose – c’eravamo tutti tranne papà trattenuto in ufficio. Mamma  aveva messo a Siria, che adesso aveva più di due anni, un vestitino nuovo di organza  che la faceva sembrare una deliziosa farfalla. Rifiutava la mano di mamma per dimostrare che sapeva camminare sicura, pavoneggiandosi con il suo ombrellino  cinese di carta  comperato a non so che fiera.

        Le piaceva camminare sull’orlo della sabbia che l’onda ritirandosi lasciava bagnata, mentre noi ragazzi giocavamo a rincorrerci schiamazzando. Dell’attimo che seguì non ricordo che una confusione di grida, Siria che si dibatteva in acqua e l’ombrellino trascinato al largo dall’onda più lunga delle altre che togliendo la sabbia da sotto i piedi della bambina l’aveva fatta cadere e se la stava portando via.

      Questo fu il saluto che ci diede quel mare amaro che personalmente lasciavo con sollievo. Dovevano passare  anni perché tornassi ad amarlo, tanto da farmi dire scherzando: “Se rinasco voglio fare il Capitano di Lungo Corso!”

  PARTE  TERZA

ORTE SCALO -  VITA DA PIONIERI

       1) – Quasi come chi  si aspetta di  recarsi a un lauto banchetto  e si trova davanti un pezzo di pane secco e una brocca d’acqua. Questa la delusione che provammo all’arrivo nella nuova sede. Che era meglio di Ladispoli e  peggio di Cave.

       Non era – come aveva detto papà – un paese, dove le case sono ammucchiate una vicina all’altra. La borgata si stendeva  in una valle, con il fiume e la ferrovia in mezzo, come un lungo serpente. Quindi strada unica intitolata a Garibaldi con case sparse che ora guardavano verso la ferrovia e un quasi-monte detto Sassofreddo e ora si volgevano verso la collina ai cui piedi  la strada scorreva. Raramente le case erano una di faccia all’altra.

      Circa in mezzo la Stazione, che merita la maiuscola perché a mio avviso era  di una grandezza degna dell’importanza. L’ufficio postale – il più dignitoso che io conoscessi - gli stava accanto. A entrambi si accedeva da un piazzale sterrato come tutta la strada, con un fontanile  di grigio e ruvido peperino in mezzo per abbeverare i cavalli delle carrozze destinate ai viaggiatori diretti  a  Orte  “il paese più antico di Roma” che distava quattro chilometri.

      A un certo punto la strada si biforcava. In direzione di Orte, a sinistra in leggera salita diventava via Fiume che alla voltata  prendeva il nome di via Zara. A via Fiume, in mancanza di un edificio di là da venire, c’erano le scuole, scassatissime, di cui avrò modo di riparlare. A destra della biforcazione, un ponte sulla ferrovia  permetteva di scendere  alla piana del fiume.

      Questa descrizione forse troppo dettagliata ha lo scopo di delineare la primitività del luogo e non pretende di essere frutto dell’osservazione di un bambino di ormai quasi sei anni appena arrivato.

      Per tornare alle sue reali impressioni passiamo alla casa dove andò ad abitare. Lo stabile comprendeva sei appartamenti su tre piani, tutti simili tra loro e faceva parte di una serie di case riunite, di proprietà del ricco “sor” Piloni, un omone di mezza età dall’aria burbera con un enorme naso spugnoso di un colore tendente al rosso. Abitava di fronte a dove iniziava o finiva la sua proprietà, in una modesta villetta preceduta da un giardino incolto e accuratamente cintata.

      Il complesso degli stabili era interrotto, a circa la metà, da un grande  passaggio coperto per raggiungere le casucce sul retro, abitate da povera gente e il grande capannone di cui dovrò parlare. Il passaggio, sterrato e polveroso era l’ideale  per il nostro gioco dei quattro cantoni. Ci veniva anche  Giacinta, la vecchia moglie del carbonaio, che incurante dei nostri schiamazzi, come un gatto faceva col piede una buchetta nella polvere e standoci sopra, in piedi, a gambe larghe nelle lunghe vesti, ci vuotava la vescica... ma senza ricoprirla. Era un rito al quale ci aveva abituati e a cui assistevamo nella massima indifferenza.

      L’appartamento consisteva in quattro grandi stanze: soggiorno, ampia cucina con focolare alto e due fornelli a carbone  per cucinare, e due camere da letto. Si entrava direttamente nel soggiorno perché quando lo stabile fu costruito non era ancora arrivata la “civiltà” del corridoio, come nel “moderno” grande “palazzo dei ferrovieri”. Poiché a noi era toccato uno dei due appartamenti del terzo piano, potevamo godere di una bella vista sia sulla strada, i prati e gli orti di fronte, con la stradina che portava in cima alla collina, sia sul retro con le casucce, il capannone, la  ferrovia, il Deposito, i binari morti e sullo sfondo il Sassofreddo. Le finestre laterali davano sul vicoletto selciato che scendeva al capannone e sul prato su cui sarebbe sorto il Molino Centrale (uno dei più grandi d’Italia, si diceva) e poco più lontano la mole del grande palazzo dei ferrovieri. Non nomino gli ascensori e il riscaldamento perché se esistevano da qualche parte io ne ero totalmente all’oscuro.

      A farmi piacere, in quella casa c’era, per gl’inquilini del nostro appartamento, l’uso privato della soffitta, a cui si accedeva  attraverso una porticina che faceva angolo con la nostra. Gradita un po’ a  tutti, una scala di legno portava a livello dei serbatoi dell’acqua  da usare nel caso che venisse a mancare quella corrente, calamità probabile al tempo della costruzione , non più per fortuna al nostro arrivo, e perciò non  in uso.

      La stessa  scala permetteva  l’apertura e chiusura di un polveroso abbaino e l’accesso agli ampi sottotetto pieni di polvere e calcinacci, che una volta puliti sarebbero serviti a mamma per asciugare il bucato durante l’inverno. Papà ci avrebbe  disteso comodamente le provviste  di patate e di mele; Pietro vi avrebbe nascosto i libri popolari (Petrosino, Fantomas, Salgari e Verne che poi sarebbero passati a me) che comprava sulle bancarelle; e Liliana altrettanto con le dispense di romanzoni a puntate che ogni mese un vecchietto veniva  a vendere per pochi centesimi.

      Ma il vero  “re” di questo piccolo regno sarei diventato io, come vedremo appresso-

 

      2) – Di quelle sei famiglie, tre rimasero stabili per decenni, e diventarono come una sola famiglia, e tre cambiarono, ma durante la permanenza si amalgamarono con noi facilmente.

      Comincio con la nostra dirimpettaia e il suo bambino Giorgio, un tombolotto grassottello e riccioluto di quattro anni.  Il padre, un ometto dall’aria dimessa e raramente visibile, era uno dei fratelli che gestivano il buffet della stazione rimasto celebre, che a me, quando ci entrai la prima volta, incusse una tale soggezione da farmi abbassare la voce come in chiesa. Tutto specchi e cristalli, profumato di caffé, paste e cibi prelibati - destinati al ristorante e ai cestini da vendere caldi ai treni, opera di un bravissimo quanto nasuto cuoco; - a me, dicevo,  parve un piccolo inaccessibile paradiso di delizie.

      Lei, bella e dall’aria di autentica signora, non si capiva come avesse acconsentito a quel matrimonio. Adorata e servita di tutto punto, aveva l’aria stanca e insoddisfatta di una Signora Bovary. Non cucinava. All’ora dei pasti dal buffet le arrivavano le talmente note – e a lungo andare stucchevoli – prelibatezze che lei faceva finire puntualmente nel gabinetto. Il quale ogni tanto si intasava e occorreva provvedere. E allora il lezzo era tale che – si salvi chi può! -  tutto il vicinato se ne accorgeva e concordemente deplorava l’indegno sciupìo.

      Come era prevedibile, un giorno la bella signora scomparve col bambino e forse mamma – a cui la signora era diventata amica, - avrebbe potuto dire che fine fece. Siccome a quell’età non m’interessava, l’ho dimenticato. Le successe una giovane coppia con due piccoli gemelli di cui avrò modo di parlare.

      Il secondo piano finì per essere  dedicato ai “fluttuanti”. Ne ricorderò due. Una è passata nella nostra storia come “la signora grassa” o “la napoletana” I due nomignoli la descrivono. Non era un’educatrice nel senso migliore della parola. Lo era nel peggiore. Amava  raccoglierci intorno a sé,  maschietti e femminucce,  e il suo argomento preferito era se avevamo “fatto insieme le porcherie”. D’inverno poi, siccome soffriva il freddo passava la giornata seduta, con un braciere sotto la lunga veste e amava mostrarci “le vacche” per intendere le macchie rosse che a causa del calore le si formavano sulle grasse cosce nude. Disgustosa. E buon per noi che la sua permanenza a Orte Scalo sia stata breve.

      Dirimpetto venne ad  abitare un giovane medico, forse per creare un’alternativa con il dottor Mele, bravo, un’autentica istituzione, che venivano a consultare anche dai paesi vicini. E dico subito  (per spiegare poi) che l’arrivo del nuovo dottore fu per noi un’autentica disgrazia.

      Al pianterreno rialzato, pari ai tre gradini del portoncino comune, due famiglie “stabili”: a sinistra quella della “sora” Agnesina e a destra quella  dei Traversari.

      La sora Agnesina era una donna di paese (il marito non lo ricordo) buona, brava, simpatica, affezionata, ma un po’ troppo “semplice” alla maniera evangelica. Aveva due figli, il più piccolo robusto come un torello, il più grande fragile come un ninnolo di vetro, malatissimo di cuore, che nel suo pallore e nella sua magrezza  mi ricordava Raffaello ogni volta che lo vedevo.

      Questo, comunque, una volta che sembrava migliorato lo vidi in piedi. E la madre, felice, a gridare a noi di correre ad assistere al “miracolo”. La rivedo esultante mentre seguiva il figlio con la scopa “per buttare fuori con la polvere la malattia”. Lei, che era superstiziosissima, ingenuamente ci credeva perché così le avevano insegnato “al paese”. E io che da bambino ero un po’ credulone, la seguivo. Aiutavo mamma a pulire bene “perché nella polvere si annida il diavolo” mi diceva la mia “maestra”. Una volta mi disse di non far cadere il sale, “perché per ogni granello perduto si è condannati a sette anni in purgatorio”.

     Così la volta che mi cadde la saliera me ne disperai nell’impossibilità di riparare al danno, mentre piangendo a calde lacrime cercavo di contare quanti anni di purgatorio mi risparmiavo a ogni granello che mettevo in salvo. E io che allora contavo di andare in paradiso!....

      Ben più belle e educative (anche se interessate) le superstizioni che  c’insegnava mamma, una volta assodato che nessuno di noi voleva  sparecchiare, ci diceva: “Ogni volta che si apparecchia viene un angelo ad assistere al pasto e resta finché non si sparecchia. Se  lo fate domattina resta qui tutta la notte, mentre potrebbe fare tanto bene altrove. Vi sembra bello?” Mentre gli altri più grandi avevano “mangiato la foglia” io ci credevo e mi davo da fare sbirciando nella speranza  di vedere l’angelo che mi sorrideva benedicente.

      E già che ci siamo e per chiudere con le superstizioni, ecco la peggiore che mi mise in testa quella canaglia di Pietro, che avendo sei anni  più di me, me ne propinava di cotte e di crude, e io le bevevo.    

       Quando mamma decise di portarmi a Roma per l’Anno Santo del ‘30 mi disse tutto serio: “Bada che chi va a Roma per la prima volta deve baciare il sedere alla Vecchia”. Finsi di non crederci, ma sceso dal treno sotto la grande tettoia di vetro annerito il cuore mi batteva a precipizio  e cercavo di nascondermi  lanciando occhiate furtive per  scorgere dove la terribile Vecchia a gonne alzate mi avrebbe fatto pagare la penitenza.

      Non c’era o non mi vide in quella confusione? Il dilemma mi durò a lungo.

      E siamo arrivati agli ultimi inquilini. Ma con questi percorremmo una lunga strada insieme e meritano un capitolo a parte.

 

       3) -Varcato il portoncino, la prima porta a destra era la loro. Erano “i Traversari”, cognome  illustre, noto anche al Boccaccio, ma con Firenze avevano ben  poco da spartire, in quanto “romani de Roma” della  più bell’acqua capitati a Orte Scalo non so come né perché.

      Erano “i ricchi” del caseggiato. Il citato vicoletto selciato portava in leggera discesa al capannone che era di loro proprietà come la fabbrichetta di Birra & Ghiaccio. Conteneva una grande vasca per la macerazione del lùppolo e una ghiacciaia della capienza di una piccola stanza. Poi altri misteriosi macchinari. E siccome possedevano anche  una carrozza, il capannone serviva da rimessa, mentre il cavallo era relegato in una modesta stalla adiacente

      Dimenticavo una cosa importante. I Traversari erano una matura e affiatata coppia senza figli. Lei, Medea, alta, gran chioma a ventaglio, ostentava come un  blasone d’essere stata commessa “da Polli”, un grande negozio  di via Nazionale a Roma. Lui,Spartaco, altrettanto alto, magro,  dinoccolato, si considerava persona di cultura per aver frequentato un corso di studi tecnici lasciato a metà, ed era forse la persona più ostinata e attaccabrighe che io abbia conosciuto.

      Si professava socialista convinto e con il fascismo al potere aveva deciso di fargli guerra. Trovato un impiego e invitato a prendere la tessera del Partito, la rifiutò. Fu licenziato in tronco. Credette di poter fare da solo e impianto la fabbrichetta di cui si è detto. Fece debiti ed ebbe fortuna come il Pastificio Rezzemini e la fabbrica di liquori Molinari che si apprestava al lancio della neonata Sambuca.

      Questo al momento del nostro arrivo. La fabbrichetta prosperava  in loco ma anche fuori. Spartaco credette di avere vinto la sfida. Assunse qualche altro operaio, Ugo lo stalliere, collaboratore della prima ora, assunse le mansioni di factotum e persona di assoluta fiducia. (Mal riposta, se avessi potuto e osato parlare allora. Nelle ore di ozio faceva entrare noi bambini nel capannone, ci faceva salire sulla carrozza in disarmo, poi dava il via al “nascondino”. Giocava anche lui e  preferiva “nascondere” le bambine. Non capivo molto, ma sentivo che c’era qualche cosa che non andava. Inutile aggiungere altro).

      Ci presero subito in grande simpatia. Tra Spartaco e papà una grande stima reciproca, Medea non trascurava occasione per dire che in mamma aveva trovato una sorella. Più tiepidi erano con noi ragazzi. Tutte le loro tenerezze erano per Mariolino (per non confonderlo con me) chiesto “in prestito” da altri amici.

      Dire le smancerie, le cure, i privilegi prodigati a questo bambino tra l’altro taciturno e scostante è impossibile. Quello che di più mi infastidiva era vederlo sul pianerottolo, seduto a un tavolinetto a fare merenda con cioccolata e biscotti (che a casa nostra scarseggiavano) e la proibizione di toccare i suoi giocattoli, belli e preziosi.

      Per chiudere con questo periodo felice  dei Traversari dirò della venerazione che nutrivo per la loro carrozza e del  godimento provato le  poche volte che mi fu concesso di salirvi. Vederla in funzione con il cavallo attaccato, servisse anche per Mariolino, mi dava gioia, incontrarla tra gli altri veicoli in movimento era come incontrare un  amico da festeggiare.

      Così quel giorno. Ero in bicicletta,  acquistata  di seconda mano più per Pietro che per me e che io trafugavo quando era “in ozio”, tanto mi piaceva, ed ero sulla strada fra Orte paese e lo Scalo, quando vedo sopraggiungere l’amata carrozza con Ugo alla guida e Medea con un’amica che non conoscevo nel sedile posteriore. Scambio di saluti e quando la carrozza mi raggiunge, per tenermi alla sua modesta velocità mi attacco alla cape abbassata e mi lascio trascinare. Ma forse per la  imperizia una mia ruota s’inceppa con quella della carrozza, perdo l’equilibrio e capitombolo  a terra. Grido di Medea, Ugo frena e scende a soccorrermi. Non mi sono fatto niente o quasi, solo trascurabili escoriazioni. Arrossisco ai rimproveri di Medea, e l’amica, con palese  disappunto:  “Peccato, speravo di provare una grossa emozione!” Udendola, con un sorriso le feci le corna, come avevo imparato a fare con gli jettatori. Offesa brontolò all’orecchio di Medea: “Ne sanno una più del diavolo!”.    

      Due disgrazie in contemporanea finirono per affratellarci.

      Il Partito non aveva perdonato il “sovversivo”. Furono passati al setaccio i frutti di quel benessere. Vennero alla luce i debiti, le tasse non pagate, le fatture incomplete; il tutto senza comprensione né pietà. La multa fu esorbitante rese inevitabile il fallimento. Licenziati gli operai, compreso Ugo, requisiti i macchinari, venduti cavallo  e carrozza, spogliato e chiuso il capannone. Per pagare in sovrabbondanza Spartaco rimediò un ictus che lo privò di una gamba e di un braccio, ma non dell’ostinazione e della furberia, per cui bene o male “cadde in piedi”, malgrado gli inevitabili pianti, l’aria di lutto e il benessere di cui in piccola parte avevamo finito per godere anche noi.

      Niente più ghiaccio in omaggio, cocomeri in fresco, inviti  alle feste che coinvolgevano l’intero caseggiato. Scemarono i “parenti di Roma” che periodicamente affollavano casa Traversari, la nostra partecipazione a gustare i manicaretti preparati dal “signor Coppo”, padre di Medea e raffinato cuoco, in cui si esibiva a ogni visita, finirono le merende di Mariolino rimandato a casa con nostra malignetta soddisfazione. (Avevamo preso a chiamarlo “Teccarino” dall’espressione romanesca di Medea come risultato della fusione di “quant’è carino!”)

      Ho parlato di “disgrazie in contemporanea”. La nostra fu ben più grave. Non potrò non parlarne a suo tempo. Trasportato dall’onda dei ricordi, ho fatto per accenni diversi passi in avanti. Adesso, per chiarezza, è opportuno che riprenda a dipanare il filo del racconto. Per chiarezza, come usava negli amati romanzoni dell’Ottocento.

 

      4) –Che all’inizio fu una vita da pionieri me ne resi conto solo molto più tardi, leggendo i libri d’avventure e vedendo i film americani che hanno saputo rendere leggenda il loro passato. Anche se non c’erano i pellirosse e non si sparava, tutto era molto primitivo, c’era lo spirito d’omertà, l’aiuto reciproco, la partecipazione alle gioie e ai dolori comuni. Che si tenesse la chiave all’uscio perché chi volendo potesse entrare non è invenzione, né che ci fosse uno scambio di favori a solo titolo di amicizia e a sancire un patto bastasse una stretta di mano o “dare la parola”.

      Prima di passare a illustrare quanto fosse “primitiva “ la scuola sento il dovere di  dire che  non c’era neppure la chiesa. C’era il parroco, ma senza chiesa. Prima che arrivassimo – ci hanno raccontato - non possedeva che un armadio che gli avevano permesso di collocare nella sala d’aspetto della stazione. Nell’armadio c’era tutto il necessario per dire messa. E  lui, che risiedeva al convento francescano di  San Bernardino situato su un colle di fronte a Orte, in un paesaggio (scoprii dopo) del tutto pascoliano, ogni mattina si faceva i suoi bravi quattro  chilometri per scendere puntualmente a dire  la messa.

      Fu il primo a presentarsi a papà. Si chiamava Padre Geremia, originario della Ciociaria, a sud di Roma e non lontano da Cave. Per offrire ai pochi abitanti qualche cosa di più dell’armadio era riuscito a trovare un doppio locale al pianterreno di uno stabile privato di via Garibaldi, ex bettola, per di più dotato di una campanella accanto al portone. “Una campanella tutt’altro che sacra, - raccontò ridendo – perché non c’era una macelleria e a vendere carne venivano da un paese vicino due volte la settimana. Per far sapere che erano arrivati avevano istallato la campanella e la suonavano in continuazione. Loro lo facevano per nutrire il corpo, io lo faccio per nutrire lo spirito,” Era giovane, simpatico, “alla mano” con tutti, e tutti lo stimavano,  perfino gli ebrei.

      A papà confidò un sogno: dare una grande chiesa a Orte Scalo, che essendo una borgata in espansione presto ne avrebbe avuto bisogno. Papà gli promise “una mano” in aiuto.

      Per me bambino non fu facile fare amicizia, tranne che nel vicinato, finché non andai a scuola. Ma venne anche quel momento. Un po’ temuto e molto atteso. L’8 settembre  del ’28 avevo compiuto sei anni, seppi che c’erano le iscrizioni e lo dissi a papà. Mi scrisse le generalità su una ricevuta di telegramma e mi disse di andare da solo. Come ho detto, non c’era edificio, le classi erano dislocate in una serie di grandi stanze di uno stabile privato di via Fiume. A prendere le iscrizioni c’erano due maestre, una grassa e una magra sedute a una vecchia scrivania istallata sopra un’alta predella come usava allora. Non c’era nessuno, chiacchieravano. Entrai e senza dire una parola arrivai a stento a posare sull’orlo della scrivania  la ricevuta con le generalità. Capirono, risero, la grassa confidò alla magra che dovevo essere il figlio del nuovo ricevitore postale e mi iscrissero.

      Fui assegnato alla prima maschile della “maestra vecchia”, una donnetta magra e ossuta  all’ultimo anno di insegnamento, che a suon di bacchettate sulla cattedra e sulle nostre mani ci insegnò le aste, le vocali e i numeri. La classe prendeva luce da una finestra che dava sulla strada, con vecchissimi banchi tagliuzzati per dritto e per traverso e i calamai per l’inchiostro dal fondo melmoso. Erano quasi tutti a due posti; quelli in fondo, ancora più vecchi, erano a quattro posti, destinati ai ripetenti, dei bietoloni più grandi di noi, il più delle volte prepotenti e dispettosi.

      Così ebbi modo di fare nuove amicizie. C’erano i bravi, i meno bravi e i “così così”.

      Promosso in seconda e sparita la “maestra vecchia” ebbi per maestra nientemeno che la moglie del Direttore, un brav’uomo timidissimo che camminava sbilenco rasente  ai muri. La moglie era tutt’altro: autoritaria, severa, consapevole della sua importanza seppe farci “rigare dritto”. Ma non proprio a tutti...

      Si era confermato ormai come il più bravo Del Bufalo, ciccione a causa di una disfunzione ormonale, sempre inappuntabile,  grembiule stirato di fresco, colletto inamidato e fiocco di un candore  abbagliante. I suoi quaderni erano la perfezione assoluta e le maestre finivano per travedere per lui. Lo nominavano capoclasse, gli facevano riempire i calamai di inchiostro, innaffiare il geranio sul davanzale della finestra che questa volta dava sul prato, distribuire i quaderni,  sorvegliare la classe in loro assenza, ecc.

 Tutti questi meritati onori per Del Bufalo e una “croce”: i ripetenti. Lo odiavano per la sua perfezione in tutto e perché messo alla lavagna a segnare i buoni e i cattivi, metteva i ripetenti tra costoro, e siccome protestavano, incorniciava i loro nomi con vituperevoli “più”.

      Così si vendicavano usando come arma l’inchiostro: gli urtavano il braccio mentre lo versava, glielo schizzavano sul grembiule con la penna e il dispetto più grosso glielo facevano in sua assenza autorizzata. Un favoritismo che glielo rendeva esecrabile.

      Devo precisare che la maestra, forte dei suoi privilegi come moglie del Direttore (che  sono sicuro non approvava) veniva a scuola portandosi  la figlia di quattro anni. La quale immancabilmente si annoiava, per cui ogni quarto d’ora diceva di dover fare la pipì. Ed era ormai nei patti: se era bel tempo, non nel luogo addetto, bensì fuori, nel prato. E certo non sola, ma con qualcuno che la sorvegliasse. Chi se non Del Bufalo? Il quale, ideale per serietà e assennatezza, non lo era, a causa della ciccia,  per rincorrere il diavoletto che come i cani ne faceva una goccia a ogni cespuglio. Ad accompagnarlo di solito ero scelto io, magretto e svelto di gamba.

     Figurarsi i compagni e peggio ancora i ripetenti: noi al sole e all’aria aperta, loro  al tanfo e al chiuso. Sbirciavano attraverso la finestra e si mordevano le nocche della dita nel vedere Del Bufalo sorridere trionfante mentre io correvo appresso alla ragazzina che considerava un gioco farsi rincorrere.

      Non occorre precisare che noi ragazzini di quasi un secolo fa non conoscevamo ancora la malizia, mentre i ripetenti non ignoravano lo spirito di vendetta. Sul banco di Del Bufalo c’era il quaderno di aritmetica aperto sulla perfetta pagina delle esattissime operazioni. Una occhiata di intesa tra i ripetenti e via ad acchiappare le mosche!... Chi le prendeva sapeva di doverle immergere nell’inchiostro.

      Quel giorno – che non fu l’unico – rimase memorabile. Al nostro rientro fu un’esplosione. Tre mosche ancora vive e grondanti di inchiostro arrancavano sulle operazioni lasciandosi dietro una scia liquida e nera. Grida, risate nascoste e palesi, Del Bufalo piangeva e la più divertita era la bambina, più nera del temporale la madre che saettava minacce alla ricerca dei colpevoli.

      In terza, quarta e quinta ebbi la stessa maestra, una paciosa signora che veniva ogni giorno con altre colleghe da Roma. Ci divertì molto – me in particolare – il suo discorsetto di esordio. Dopo averci esortati a essere buoni, educati e studiosi aggiunse: “...e non mi fate arrabbiare, perché quando mi arrabbio divento tutta nera!”. Mi rivedo mentre mi preparo  per il turno pomeridiano e sono davanti allo specchio dell’armadio di mamma. E lungi dall’essere spaventato penso divertito “Chissà se oggi la vediamo diventare nera?” ci deluse; non ci diventò mai. E non di certo perché fossimo buoni, educati e studiosi.

       Quei pomeriggi a scuola furono inutili come un fiammifero spento. Nei giorni freddi d’inverno ci radunavamo a cicalare intorno alla stufa alimentata con i pezzi di legna che portavamo da casa la mattina; in quelli caldi di primavera, mentre la maestra sonnecchiava facevamo “il gioco del silenzio” con Del Bufalo alla lavagna a segnare i buoni e i cattivi... finché non suonava la campanella della liberazione.

      Le vacanze di Natale del ’32 sembrarono anticipare quello che stava per succedere. Con i Traversari in piena crisi, niente feste, neppure il solito ginepro colto sulla collina e adornato con arance, mandarini e finti pacchetti-regalo involtati con carta velina colorata e vuoti. Il giorno di Natale Spartaco era crollato colpito dall’ictus, ma ci rassicurarono dicendoci che anche se in parte si sarebbe salvato.

 

 

      5) –Alla fine delle vacanze Siria non tornò a scuola perché si ammalò. Mal di gola, un male di stagione. Valeva la pena scomodare il dottor Mele con il dottorino venuto ad abitare al pianerottolo sotto al nostro?

      Quanto segue spiega il “per nostra disgrazia” delle prime pagine.

       Il “mal di gola” si protrasse oltre i soliti tre giorni, per diventare “difterite”, una malattia che faceva spavento solo a nominarla. Ci rassicurò la sora Agnesina, che per avere curato tanto a lungo il primo figlio malatissimo di cuore (poi morto) era considerata, se non un’infermiera, un’esperta: “Adesso, col vaccino che hanno inventato, è diventata una malattia qualsiasi” – Ci mostrava nella gola di Siria  la collana di placche: “ Le vedete? In pochi giorni spariscono! Coraggio, Siria. Il 21 gennaio, sant’Agnese, è la festa mia. Ti alzerai e faremo festa per te!”

      Rassicurati e consolati, fatto il vaccino, aspettavamo fiduciosi l’effetto. Ma il “miracolo” tardava, la malatina si rifiutava di mangiare e deperiva. Mamma era inquieta, io le stavo appreso e cercavo di rassicurarla. Siccome passavo lunghe ore con Siria, voleva che mi distraessi. La febbre aveva finito per mollare, anche se lo sperato miglioramento non c’era stato, le placche erano sempre lì, anzi ingrossate  e diventate grigiastre.

      “Mamma, Del Bufalo ha detto se vado a fare i compiti a casa sua”.

      “Vai così ti distrai. Siria ha bisogno di niente?”

      “Dorme sempre”

      “Per forza, non si nutre. E’ la debolezza. Adesso preparo le mele al forno, le piacevano tanto. Così quando torni cerchi di fargliene mangiare  almeno una”.

      “Va bene... Quando si sveglia dice  sempre che  ai piedi del lettone c’è un cagnetto e di cacciarlo via perché ha paura... Perché, mamma?”

      “Secondo me, allucinazione da debolezza.”

      “Allora vado. Puoi fare da sola?”

      “Spartaco sta meglio, sora Medea mi ha promesso che viene su.”

     Se solo avessi immaginato. Ma a nove anni iniziati da poco le preoccupazioni spariscono presto e la casa di Del Bufalo era un tale tesoro di meraviglie! A parte i più mobili, e migliori, di casa nostra, il padre ferroviere e cacciatore, aveva riempito la casa di animali  impagliati  - un falco, una donnola e  una variopinta pernice – e di tutti i segni del benessere, come la stufa a carbon  fossile  per cucinare e per l’acqua calda in cucina e quella di ghisa  a legna per scaldare  le altre stanze, più  il grande ventilatore elettrico per l’estate.

      Del Bufalo, che in privato si faceva chiamare Dino ed era meno antipatico che a scuola, non trascurava occasione per dimostrare la  sua superiorità in tutto. Sciorinando i suoi tesori mi mostrava (e mi raccontava la storia) lo zampetto di lepre vero che ostentava, invidiatissimo, a scuola per pulire il pennino, la favolosa scatola di compassi regalatagli per Natale in vista della scuola media ormai vicina... Perché lui avrebbe frequentato l’Istituto tecnico di Terni...

      Facemmo i compiti, copiai il problema che da solo non sarei riuscito a risolvere, giocammo e perfino cantammo. Poi mi accomiatai. Si era fatto notte, il fiume ci aveva regalato la solita nebbia, faceva freddo dopo il bel calduccio della casa di Del Bufalo. Incontrai un’amica di Liliana che mi disse: Mario, corri a casa, che Siria si è sentita male. Svuotato di energia corsi con le gambe pesanti...

      Seppi dopo che papà nel frattempo, lasciati in ufficio Liliana e Pietro, tornato appena da Terni dove frequentava un corso commerciale, era andato dal dottor Mele a raccontargli tutto, a scusarsi, a implorarlo di fare qualche cosa. Quel brav’uomo, che aveva capito tutto, gli aveva tolto ogni speranza: “E’ tardi, signor Luigi. E’ stata sbagliata la dose del vaccino, La setticemia è in corso. Non c’è più niente da fare”.

      In casa  le vicine se n’erano andate rassicurate dal fatto che Siria si era riavuta dopo il malore. C’era un buon odore di mele al forno. Mamma le aveva cotte con il “forno di campagna” che cuoce sui fornelli a carbone tenuto vivo con la ventola - A mamma era stato taciuto il terribile verdetto, ma era ugualmente fuori di sé. La guardai senza chiedere.

Mi porse un piattino con una mela stiepidita: “Siria mi ha detto che la mangia. Pensaci tu. Ne ha bisogno”

      Il cuore mi si strinse nel vederla terrea in viso, le occhiaie fino a mezza guancia, irriconoscibile, gli occhi chiusi. “Dormi?”

      Anche la voce non era più la sua: “Non voglio vedere quel cagnetto. Sta sempre lì. Caccialo via”

     Stetti  al gioco: “Stai tranquilla. Se si accosta, gli do un calcio che lo fa volare fuori della porta.” – Non sorrise neppure della sbruffonata, come speravo. -  Adesso su’, mangia la mela come hai promesso a mamma.

      La risposta fu  un soffio lamentoso: “Non posso inghiottire”.

      “Prova... Altrimenti la mamma piange.”

        L’aiutai a mettersi seduta, le misi lo scialletto come faceva mamma e siccome socchiuse la bocca vi infilai il cucchiaino con un po’ di polpa di mela e visto che era andata, replicai. Fu un attimo. Poiché con un braccio la sostenevo per le spalle, la sentii abbandonarsi e diventare più pesante, la testa reclinata, gli occhi chiusi, la polpa di mela che  le scendeva dalla bocca. Terrorizzato, con un grido chiamai mamma.

      Il suo urlo fu l’eco del mio grido. Poi, il buio.

 

      6) –Chi legge può legittimamente chiedersi come possa, dopo tanti anni, ricordare le minuzie che ho raccontato. Rispondo: una sorellina ti muore tra le braccia quando non hai ancora undici anni, ti marchia a fuoco per la vita, campassi anche mille anni. Quello che  ho raccontato  l’ho rivissuto con uno strazio forse maggiore di quello provato all’origine, perché oggi più consapevole  di  allora. Tutto vero e  “rivisto” con tale nitidezza che di più non avrebbe potuto darmi una sequenza fotografica.

      Quello che seguì fu un periodo angoscioso, cupo, di dolore per la perdita, ma di più per le conseguenze che essa avrebbe potuto avere su mamma che adoravo. Temetti che impazzisse. Ero quello che per l’età le stava più vicino, vivevo del suo respiro, il suo continuo piangere mi straziava, il suo parlare da sola con Siria che non c’era e viveva  solo nella sua immaginazione mi faceva paura. Per distrarla le leggevo La Storia Sacra  scritta da Don Bosco che le piaceva ed era il poco che offriva la nostra inesistente biblioteca. Ma non so se mi ascoltasse.

      Ricordo vagamente zia Annunziata, la più affezionata delle sorelle di mamma, certo venuta per la triste occasione. Volle vedere la tomba di Siria (nella terra in attesa che il Comune terminasse la costruzione dei loculi con cui aveva deciso di ingrandire il cimitero che serviva Orte e le frazioni vicine, tra cui il nostro Scalo) e nel tornare  mi disse: “Povero Mario, questa sarà la tua passeggiata domenicale”.

      Fu facile profeta. Tutte le domeniche di allora le ricordo io e mamma nel cimitero deserto, sotto i classici cipressi cupi e tetri, lei che pregava e piangeva seduta in terra accanto al tumulo di Siria, io che mi aggiravo tra le tombe spoglie per la stagione invernale. “Giocavo” a immaginare, raddrizzavo una croce, rassettavo una lapide, rubavo qualche raro fiore per regalarlo a una delle tante tombe dimenticate. Dopo il nostro spaventoso “incontro” io e la Morte avevamo familiarizzato.

      C’è da meravigliarsi se nei miei giochi solitari di allora facevo piccoli cimiteri in cui seppellivo (magari ancora vivi!)  mosconi, coccinelle, calabroni o altri insetti che trovavo, vivi o morti? Li dotavo di una rozza lapide, di una piccola croce che costruivo con gli sterpi, e li curavo finché la pioggia non me li portava via.

      No, decisamente non ho “buoni ricordi d’infanzia”, come raccomanda Dostoevskij. Ha talmente inciso nel mio carattere che il mio riso ha sempre un’ombra e nel mio carattere la paura che una volta rialzato ci sia sempre un’altra bastonata in attesa

      Il solito lettore potrà chiedersi che fine abbia fatto in tutto questo il resto della famiglia. Occorre una spiegazione, anche se non breve. Lo pongo come intermezzo prima di dire  come uscimmo (mamma, e con lei io) dal tunnel angoscioso  in cui quella disgrazia ci aveva cacciati-

 

       7) -Per come erano organizzati gli uffici postali di allora (difficile e poco interessante da spiegare) papà percepiva uno stipendio piuttosto consistente per quei tempi. Ma c’era un “ma”. Con quello stipendio “buono” ci doveva pagare il portalettere, che recapitava la posta due volte al giorno e non solo nella borgata, cioè anche nelle campagne limitrofe, il supplente o i supplenti e l’eventuale fattorino dei telegrammi. Per evitare di restare con le briciole, “arruolò” tutta la famiglia, tranne il postino. La moglie (che doveva dividersi con la casa) e la figlia (che per questo dovette lasciare gli studi); le quali essendo intelligenti  diventarono supplenti effettive (e tali vennero riconosciute – anzianità compresa)  quando gli uffici postali passarono allo Stato. Pietro avrebbe aiutato per i conti di cassa al ritorno dalla scuola (a Terni o Roma). Recapitare i telegrammi toccava a me. Ma non mi dispiaceva perché correre  era la mia passione, e poi c’erano le mance, un soldo, due soldi, a volte perfino un ventino, per pagarmi da me, senza ricorrere a mamma, un piccolo cono da due soldi quando in estate passava col suo carrettino Pasquale il gelataio. Al telegrafo pensava papà, che il ticchettìo dell’alfabeto Morse lo capiva a orecchio.

      Anche se ci dava da vivere, odiavo quell’ufficio che non ci permise mai di fare un giorno di vacanza insieme e neppure un pomeriggio domenicale al fiume, che era il nostro “mare” e in estate la meta di tutti per i sobri pic-nic al  fresco. Recalcitravo. Non volevo che assorbisse anche me. Poiché era mio dovere “aiutare” ogni fine mese dovevo andare a impacchettare  le tante ricevute. Lo facevo. Lo stretto necessario, non di più. Ma crescendo finii dietro lo sportello a registrare raccomandate, conti correnti, vendere francobolli, contare parole di telegrammi... E nei momenti di ozio a sognare sulle poche pubblicità di viaggi che transitavano. Un giorno anch’io...(Si tentò anche di farmi imparare a usare il telegrafo, a trasmettere col tasto e a ricevere leggendo la zona, ma non volli nel timore di essere coinvolto anch’io. Ma poi, come vedremo, la guerra mi costrinse a cambiare idea...)

      Colgo l’occasione, prima che il torrente dei ricordi lo cancelli, per raccontare un fatterello accadutomi durante una delle mie rare “apparizioni” allo sportello. Amo raccontarlo per riderci sopra.

      Protagoniste due maestre delle scuole rurali, una veneta, piccolina, graziosa, intelligente e di spirito, l’altra siciliana, grande, grossa e un tantino volgare. Seppi dopo che la piccolina si era confidata: “Se vai all’ufficio postale e sei fortunata ci trovi il figlio del signor Luigi, rifatti gli occhi: è un gran bel ragazzo!” Una notizia ghiotta per due a digiuno di maschi: la sicula matura zitella, la veneta vedova o separata, non ricordo. Quel giorno allo sportello ci sono io, scolorito ragazzotto magro e pallido o spennacchiato pulcinotto, a piacere.

      Arriva la sicula, mi sbircia attentamente sovrastandomi con la sua mole e rivolta a papà che siede al suo tavolo alle mie spalle, esclama seccata: “Signor Luigi, e questo sarebbe il figlio bello?!” Spiegazioni, risate. Il “bel ragazzo”  era Pietro, che non c’era. C’ero io, che non mi sono mai considerato mai una bellezza, ma quel giorno ci rimasi male.

      A differenza di me, papà  amava l’ufficio, che per lui aveva qualche cosa di sacro. Non trovava da ridire sull’orario massacrante che oggi scatenerebbe la rivoluzione: 8-12 al mattino, 15-19 nel pomeriggio sette giorni su sette, più apertura la mattina dei giorni festivi più permanenza in ufficio nel  pomeriggio domenicale, dalle 16 alle 17   a sorvegliare  un misterioso “palo prova”. Da impiccare chi aveva escogitato un simile orario. Ma da papà mai un cenno di protesta.

      Non l’ho mai visto prendersi un giorno di ferie, mai un giorno di malattia. Credo che non si sia mai appropriato neppure di un francobollo; ogni 31 dicembre  si ritardava il “cenone” finché nei conti di cassa non si trovava  il centesimo in più o in meno che li rendeva imperfetti.

      Aveva il sommo rispetto dell’Amministrazione. Per farla risparmiare usava rovesciare le buste usate. Ricordo che all’inizio mi dava per la scuola una matita della poca cancelleria che riceveva. Probabilmente me la rubavano. Tornando dicevo che mi era caduta e mi si era fatta a pezzetti. Non ci credeva. “ Credi che l’Amministrazione le matite le vada a rubare?” Non ci ha mai messo una mano addosso, ci bastava un rimprovero, un’occhiataccia. Mi rassegnai alle matite divise in quattro pezzi.

      Durante la bella stagione si alzava alle 5 e ci tirava dal letto, me e Liliana (Pietro col treno a scuola) per “la passeggiata”. Borbottavamo pur sapendo che era inutile: la salute innanzitutto! Con l’aria fresca e pulita e l’odore della campagna rugiadosa il malumore ci passava. Imboccavamo il sentiero che portava in cima alla collina, fino alla casuccia di Alessandra, una vecchia contadina simpatica e cordialona con una gamba più corta che a papà era devotissima. Ci offriva la colazione: l’ovetto da bere con i due buchetti, uno sopra e uno sotto, pane, prosciutto e fichi se era la stagione, con un bicchiere di latte appena munto. E se il prosciutto era finito, formaggio fatto da lei col latte del suo branchetto di pecore.

      Corroborati e sazi scendevamo prima che scadessero le 8 per la puntuale apertura dell’ufficio.

      Mamma e papà ci tenevano molto alla nostra salute. La passeggiata poteva variare, non variava nella cattiva stagione l’orrendo Olio di fegato di merluzzo, con il Proton e il quotidiano cucchiaio  di  olio d’oliva che allora era veramente “extra vergine”!

      Essendo così organizzata la nostra vita, a mamma non restavo che io. Che d’altra parte non avrei rinunciato ad accompagnarla per tutto l’oro del mondo.

 

      8) –Più tardi, ragionando sui terribili mesi che seguirono la morte di Siria e sui disastrosi effetti che ebbe su mamma, ho capito che nel clima di allora la perdita dovette apparirle enorme, il dolore tutto e soltanto suo. E lo paragonai a una macchia nera in un lenzuolo tutto bianco. Nera come il suo lutto che protrasse oltre l’anno della consuetudine e che faceva spiccare di più gli argentei fili che brizzolavano i suoi nerissimi capelli, mentre anche la sua notevole bellezza a poco a poco sfioriva. (Bellezza che da giovane costringeva gli occhi a seguire il suo passaggio e che fu sempre “acqua e sapone”, non avendo mi visto sul suo viso la pur minima traccia di trucco). Gli eventi contribuirono a deviare, seppure in parte, pensiero e abitudini.

      Ero in quinta elementare. La scuola volle impegnarsi in una impresa titanica: allestire uno spettacolo d’operetta – Il piccolo balilla – con ben cento personaggi da reclutare in tutte le classi. E dato che ero (o mi consideravano) abbastanza sveglio e intonato, fui scelto come protagonista.

      Della complessa e caotica preparazione ho già scritto. Quello che ho taciuto è il mio stato d’animo, che imparata la parte e provati i canti, mi portava a isolarmi mentre sul palcoscenico delle prove ferveva la rissa tra la maestra al pianoforte e i cori che stonavano a tutto andare. Il mio comportamento, che non  mi fu dato modo di chiarire, suscitò beccate e ironie da parte degli insegnanti: altezzoso, borioso, con arie da grande interprete. Tutto falso, un malinteso che mi portai dietro  e che per fortuna sfociò in un notevole successo di stima. Tenuto ben nascosto il mio nascente amore per il teatro.

      Il mio pensiero, quando mi isolavo, era con quello che lasciavo a casa. Mi consolava il pensiero che dovendo cambiare di costume per ben quattro volte durante lo spettacolo, mamma aveva acconsentito a confezionarmeli. E questo la distraeva notevolmente. Le visite domenicali al cimitero continuarono, ma erano meno angoscianti e gli argomenti di conversazione più vari: i costumi, le prove, i commenti, i bisticci che più di qualche volta la portavano a sorridere. E per questo li consideravo una benedizione.

      Lo spettacolo ebbe un miracoloso successo, la ragazzina da me liberata nello spettacolo smise di piangere per la vergogna del bacio che le dovevo dare, i costumi realizzati da mamma (che per il lutto non venne), furono lodati e ammirati, io ebbi molti elogi e perfino un “trofeo”: la signora Arcangela, la vecchina della merceria, con le lacrime agli occhi mi regalò un piccolo portamonete di incerata verde, con un soldino di buon augurio dentro.

     A consolidare il successo lo spettacolo ebbe due repliche.

      Intanto l’anno scolastico volgeva al termine. Gli esami furono una passeggiata. E poiché Del Bufalo, sempre il migliore, aveva scelto l’Istituto per Ragionieri e Geometri “ F. Cesi” di Terni, tutti lo seguimmo a valanga, compreso io che per la matematica ero la negazione.

      Poi, quasi miracolosamente, mamma parve rifiorire. D’accordo con papà, aveva deciso di sfidare la sorte: “Tu me l’hai tolta e io me la riprendo!”.

      L’attesa non fu una gioia per mamma. Le fu anzi fonte di amarezze da parte della figlia Liliana che da radicale come si è a sedici anni avrebbe voluto che mamma a 44 anni facesse voto di castità. Pietro, a quel che mi risulta, rimase indifferente. Io al solito, mi schierai dalla parte di  mamma... (Anche se, a quasi dodici anni, ancora credevo che un bambino potesse nascere “per virtù dello Spirito Santo!”).

      ALTRI TEMPI

         E a questo punto siamo arrivati ai giorni nostri. Sono gli ultimi? E’ probabile. Nell’accomiatarmi da questi Ricordi non posso dire di esserne soddisfatto, specialmente dell’ultima parte, scritta in condizioni precarie, in modo superficiale e sentendomi il più delle volte tutt’altro che bene, e quindi di mala voglia.

         L’insoddisfazione dipende anche dal fatto che di cose ne ho ricordate tante, ma sono molte di più quelle non ricordate o involontariamente taciute. La tentazione sarebbe quella di poter tornare indietro, aggiungere, rimpolpare, magari rettificare, ma innanzi tutto non ne sarei capace, e dovrei chiedere aiuto abusando di chi già troppo è costretto a farlo.

          La tentazione è di farlo adesso in chiusura, ma sarebbero “pezze a colore” da vestito di Arlecchino. Scorrendo le pietose prime pagine delle domeniche trascorse al cimitero con mamma, vedo di aver trascurato una riflessione a suo modo divertente, che mi è tornata alla memoria. Rimedio per alleggerire la tristezza del distacco da questi ricordi.

         Non avevo che dieci anni, e praticamente solo, “giocavo” a raddrizzare croci infisse nella terra, a togliere fiori secchi, a raccogliere coccole cadute dai cipressi. Mi divertivo anche a leggere gli epitaffi delle lapidi, pieni di “madri amorose”, di “padri esemplari”, di “cittadini integerrimi” e “figli devoti”. Meravigliato da tanti virtuosi, mi si illuminò nella mente un pensiero altrettanto lapidario: “Ecco perché il mondo è cattivo; perché i buoni sono tutti  seppelliti qui”

          E già che ci sono, sempre scorrendo quei ricordi d’infanzia con  l’allusione all’invidiato Mariolino coccolato dalla sora Medea, mi è tornata alla mente una piccola involontaria “vendetta”.             

           Ero presso la trattoria gestita dai genitori di Mariolino. Avevo un lungo spago e ad attirare la mia attenzione fu  il grosso manico di un grosso tegame di coccio marrone. Avevo allora meno di dieci anni e in mancanza di altri giochi pensai di legare il grosso manico con lo spago per trascinarlo a mo’ di cane al guinzaglio. Poi presi a farmelo girare intorno. Era divertente, anche perché allungando a poco a poco lo spago, il cerchio sul mio capo si ingrandiva guidato dal mio braccino

         Non tutti ne sarebbero stati capaci, meno di tutti Mariolino che assisteva sulla porta laterale della sua cucina. Gongolante ampliai il cerchio, ma la fortuna mi venne meno, lo spago si spezzò o  il manico  si slegò  e partì in volo per andare a sbattere proprio sulla fronte di Mariolino. Proprio così. Non è una fantasia, fu una malaugurata fatalità. Alle grida del bambino e della madre e gli improperi del padre facevano eco i miei disperati singhiozzi. Che furono tali e tanti che con Mariolino i genitori dovettero consolare anche me.

          Un altro motivo che non contribuì a rendermi simpatico Mariolino ebbe per protagonista un… passerotto-

          Durante la mia infanzia mi capitò più volte di avere in regalo un passerotto di nido. Facevo di tutto per farli mangiare e vederli crescere, ma senza mai riuscirci. Tenevano il lungo becco ostinatamente chiuso e si lasciavano morire con tutti i miei possibili pianti.

        Avvenne che una volta, chissà come, il passerotto neonato aprì il becco e si lasciò nutrire! Indescrivibile ma immaginabile la mia felicità. A poco a poco lo vedemmo crescere e si lasciò addomesticare. Rispondeva ai nostri richiami, ci veniva in mano, sulla spalla o in testa, mentre mangiavamo veniva sulla tavola a beccuzzare le briciole e con nostri indescrivibile divertimento lo vedevamo svolazzare nelle stanze senza tentare di fuggire neppure con le finestre aperte. Non credo di avere mai posseduto tesoro altrettanto prezioso!

        Purtroppo, però, amava beccuzzare anche in terra, trascurando di cinguettare  ogni tanto per segnalare la sua presenza. Noi lo sapevamo  e ci aggiravamo con la massima cautela. Attirato dal passerotto Mariolino prese a frequentare la nostra casa. Io  ero orgoglioso di potergli mostrare come  possedessi un “prodigio” negato a lui, tanto più fortunato  di me per altre cose- Accadde l’irreparabile. Lo fece apposta? Non voglio crederlo. Il fatto è che con un piede un brutto giorno finì sull’uccellino e lo uccise. Tralascio di descrivere la mia disperazione. Anche Mariolino pianse, ma non certo quanto me. Ed è da allora, credo, che presi a odiarlo. Comunque quella del manico di tegame in fronte non fu la mia vendetta, perché  il fatto accadde prima  del passerotto.

         Ma basta, il non raccontato finisce per affondare nel buio del passato pieno zeppo di storie rimaste anonime.  Anche se mi rimane uno scrupolo.

         Quando parlo con mia figlia  dell’inutilità di questa mia ultima fatica mi replica: “Perché? E’ sempre la testimonianza di un’epoca.” Giusto. Ma lo é? Ne dubito. Si tratta di ricordi troppo personali troppo superficialmente resi. Usi, costumi, mentalità a me sembra che non compaiano. Tirando i remi in barca cercherò di rimediarvi..

         Diciamo subito che quegli anni sono lontani anni-luce dagli attuali. Era un “mondo piccolo”, agreste, semplice e onesto, tutt’altro che multietnico. La borgata ferroviaria in cui sono cresciuto si differenziava soltanto per i dialetti d’origine dei ferrovieri, non certo per le lingue. Fino alla guerra, i neri li avevo conosciuti sui libri e nei film americani. Unici stranieri che si affacciavano ogni tanto, i cinesini che vendevano dozzinali cravatte a “due lile”.

         Era coltivato il senso dell’onore. Ci si faceva un vanto di avere “una parola sola”. Una stretta di mano sanciva un patto più di un atto notarile. La proprietà privata era sacra. Quasi ignorato il furto, quanto le serrature e i chiavistelli. Al mattino le massaie per prima cosa  ponevano la chiave all’esterno perché chiunque potesse entrare. Altrettanto sacro era l’ospite.

         Durante la guerra la fame si “tagliava a fette”. Eppure  ricordo che in campagna, per chi con aspetto civile passava, Lalla la matriarca stendeva a un angolo del tavolo  mezza tovaglia di bucato e immancabilmente offriva un bicchiere di vino, pane e caciotta delle  sue pecore.

         Sei famiglie del fabbricato dove abitavamo noi erano una sola famiglia che a maggio si radunava  a dire il rosario all’altarino allestito a uno dei pianerottoli.

         Salvo qualche eccezione, i genitori ci erano di modello. Ci adoravano, ma erano ben lontani dal viziarci. Sul necessario non si discuteva. Non essendoci allora l’usanza del “piatto unico”, i nostri pasti consistevano in un primo piatto, in un secondo di carne con tassativo contorno di verdure e frutta. Come facessero è un mistero. Va precisato che mia madre era una cuoca fantastica, non sprecava niente e inventava pietanze e dolci sempre ghiotti, i prezzi molto modesti  e i prodotti – carne, uova, frutta e verdure - tutti realmente genuini, anche se ognuno alla propria stagione e non forzati in serra per  tutto l’anno. Ma mai che mi sia capitato di sentire i miei genitori lamentarsi della spesa, come ci capita di fare oggi.

          Cancelleria e libri scolastici erano d’obbligo, ma compassi, vocabolari e atlanti, tutti di seconda mano, cosa che mi avviliva non poco. Se me ne lamentavo, “pensa a chi sta peggio”, mi ammoniva mio padre,  senza peraltro che  mancassi di replicare, magari a mezza bocca: “Io penso a chi sta meglio” (Andavo consolidando quello che è stato sempre un mio principio: “Chi  non  si contenta gode”,  immancabilmente aggiungendo che: se uno possiede una panchetta deve aspirare a una sedia; chi ha una sedia deve aspirare a una poltrona, a un divano… e così via).

          Adoravo leggere, come adoravo il cinema, e la cioccolata, per cui il mio sogno era andare al cinema. mangiarvi cioccolata durante la proiezione e  leggere negli intervalli. Che erano lunghi perché il proprietario aveva due locali, uno al paese e l’altro alla borgata  da noi, e ci accontentava tutti con un’unica pellicola facendo la spola negli intervalli. Ma c’era l’inconveniente che per entrare bisognava pagare il biglietto e i soldi raramente arrivavano. Allora ricorrevo a uno di questi due sistemi. Fingevo un’aria infelice con mamma. “Che fai, non esci?” “Non mi sento tanto bene, vado a mettermi un po’ sul letto” “Tieni, vai al cinema, può darsi che ti passi.”

         Il metodo era infallibile. Lei capivo, era più furba di me, ma mi voleva troppo bene per dirmelo, e io “ci marciavo”. Ma non potevo fingere troppo spesso e ricorrevo al secondo sistema. Andavo e mi mettevo nell’atrio con l’aria del cagnetto frustato. L’uomo addetto alla sorveglianza faceva finta di non vedermi, ma era un brav’uomo, meglio di quell’arpia della cassiera. La quale all’inizio del secondo tempo, quando non veniva più nessuno dava inizio a rinnovarsi il trucco con la cipria e uno specchietto poco più grande di un francobollo, impiegando un tempo che a me sembrava un’eternità. Quando finalmente con l’indice insalivato si incollava al viso i tirabaci capivo che con la volpe spelacchiata  su una spalla se il tempo era buono stava per andarsene. Intanto fissavo il sorvegliante e il gesto della mano destra  di taglio sul polso sinistro mi dava via libera. Allora imboccavo la scala e mezzo minuto dopo ero in paradiso, cioè in galleria. Fu così che nella mia infanzia vidi un sacco di finali dei film. Ma mi bastava, il resto lo immaginavo: la fantasia non mi mancava e potevo contare su dei libretti da quattro soldi risparmiati sulla lira della colazione, che il film lo raccontavano  per intero.

          Tutte cose che facevo di nascosto, sicuro che papà non avrebbe approvato. Non che fosse troppo severo e manesco come tanti padri. Ma era il suo sguardo che ci bastava e se era di rimprovero lo temevamo più di uno schiaffo. Che non ci diede mai, per la verità. E  non esagero, né li ho dimenticati. Li ricorderei come ricordo l’unico sculaccione della mia vita che mi rifilò perché mi sorprese steso per terra a pescare non ricordo che cosa con un compagno nel tombino della fogna. Fu talmente eccezionale anche per lui, che eccezionalmente mi comprò un giornalino per farsi perdonare.

         So per certo che lui e mamma si amarono per tutta la vita. Sono altresì sicuro che lui che lui non ha conosciuto altra donna e mamma altro uomo. Di favole ne ho scritte parecchie; non ho  scritto questa. Di quanto si volessero bene ho le prove.

         Eravamo a Bassanello durante la guerra. Mi ero ammalato e mamma mi curava fremendo al pensiero di papà solo e più esposto ai bombardamenti.  Il terzo giorno non resistette. Pur volendomi tanto  bene, mi lasciò con la febbre piuttosto alta per andare da papà che era in ufficio a dieci chilometri. Arrivata  seppe che papà era partito per venire a Bassanello. Infatti era nel frattempo arrivato. Mamma senza riposarsi un minuto girò le spalle e rifece i dieci chilometri, con un bombardamento che la sorprese per strada e la costrinse a rifugiarsi in un fosso. A 54 anni, e senza fiatare. Se non è amore questo…

         Sei anni dopo, a bufera passata e quando entrambi, che erano della stessa età, avevano ormai compiuto sessant’anni, eravamo a tavola e notai una certa tensione. Pensai a uno dei non frequenti battibecchi che da piccolo mi gettavano nella disperazione. A un tratto mamma mi fa: “Mario, consideri tua madre una donna onesta?”  Mi venne da ridere: “Se non lo sei tu, non lo è neppure la Madonna!”. Pretesi spiegazioni. In ufficio mamma aveva scambiato qualche battuta scherzosa con quel bamboccione  che sorvegliava la cabina elettrica e papà le aveva fatto una scenata di gelosia. A sessant’anni! Devo ripetermi: se non è amore questo…

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                 Il più “suonato” ero comunque io. Alludendo ai piccoli screzi che  tra mamma e papà potevano esserci come fra tutte le coppie, mi ci ha fatto ripensare. Bambino, ci fantasticavo, li ingigantivo e mi terrorizzavano facendomi temere catastrofi. Di timore in timore, di fantasticheria in fantasticheria, attaccatissimo a mia madre , senza nessunissimo motivo o ragione, ero arrivato a temere che papà potesse uccidere (!) mamma. E sognavo di poter aprire una finestrina nella parete che divideva la loro camera da letto dalla nostra, per poter accorrere in caso di bisogno. Pazzesco!

         Uno dei tanti motivi, delle tante paure che turbarono la mia infanzia, che pertanto fu tutt’altro che spensierata? Ad esempio, non ricordo per quanto tempo, mi ero messo in testa che dovevo essere io a chiudere a chiave la porta di casa. Così le rare volte che papà usciva la sera e faceva un po’ tardi, in camicina da notte andavo in camera di mamma che leggeva nell’attesa del ritorno di papà, e a ginocchia piegate e la camicina tirata a scaldarmi i piedi, vegliavo con lei su un baule imbottito situato dalla parte sua, sempre nella speranza che mi facesse andare nel lettone. Speranza vana, perché non ci volle mai dare questa abitudine. Avevo freddo, morivo dal sonno, ma non mollavo. Il caldo delle coperte non poteva seguire che il rumore della chiave nella toppa e la benedizione che papà doveva impartirmi secondo mamma, memore delle abitudini della sua infanzia.

         Abitudine che noi “ragazzi moderni” contestammo e che pertanto durò poco.

         Altra abitudine che invece durò molto fu quella di dover usare, per vestirmi, gli abiti diventati corti e stretti a Pietro. Da certe rare foto del tempo arguisco che dovevo avere un aspetto pietoso: giacche troppo larghe e calzoni troppo lunghi. Ma di questo non mi lamentavo, perché sapevo che in famiglia eravamo in tanti e si doveva risparmiare, e mi reputavo  tutt’altro che  bello e quindi non meritevole  delle cure riservate a certi compagni figli unici.

         Che potessi diventare “bello” mi accadde quando a quattordici anni mi fu concesso il primo abito su misura cucito proprio per me dal sarto. Ricevetti i complimenti anche dalle ragazze che fino a quel momento mi avevano ignorato,  e perfino da qualche professoressa.

        A proposito di calzoni smessi, da ragazzino mamma, che aveva le mani d’oro e i vestiti alle figlie li cuciva lei, me li accorciava alla coscia, dato che per noi bambini erano di moda le gambe nude anche in inverno. Calzettoni e cosce al vento, che quando era di tramontana ce le “abbruscava”, provocandoci tormentosi “geloni”  da curare con la glicerina.

         Un discorso a parte meritano le scarpe di allora. Erano belle e ci sembravano bellissime, di lucido coppale e preziose. Andava bene se si riusciva ad averne di nuove ogni tre anni. Quando si bucavano il ciabattino le risuolava, ci metteva ai tacchi e alla punta delle guarnizioni d metallo per farle durare di più, specie se giocavamo a pallone.  Il momento dell’acquisto, una volta arrivato,  era memorabile e emozionantissimo perché c’era sempre il timore che  il calzolaio non avesse la misura per noi.

         Un volta “conquistate”, me le portavo strette al petto come un tesoro, trionfante le mostravo in famiglia, per ricontemplarle di nascosto  ogni tanto. Poi cominciavano le delizie delle feste, in cui calzarle era permesso: “Che bello, oggi mi metto le scarpe nuove!” Ma metterle non era soltanto una delizia, perché erano anche fonte di preoccupazione: con l’uso perdevano l’incanto del “nuovo”. Ad onta di ogni precauzione la suola che toccava per terra si graffiava. All’inizio la lucidavo,  ma ogni volta i guasti aumentavano peggiorando. Finché mi davo per vinto e mi mettevo  in attesa delle altre scarpe nuove… che però erano di là da venire.               

          Mi sono dilungato per dimostrare quanto siano cambiati i tempi. Oggi le scarpe “nuove” sono ordinaria amministrazione. Si comprano  anche tre volte in un mese e con la massima indifferenza si indossano anche all’uscita dal negozio, per poi gettarle “nel mucchio” appena arrivati a casa. Segno di un allora sconosciuto benessere, ma nello stesso tempo  perdita, con tante altre, di una piccola intima gioia.

         Una purtroppo rara piccola grande gioia di quei tempi era l’arrivo del Carro di Tespi. Improvvisamente, vicino all’ufficio postale, nel piazzale esterno della stazione sorgeva in poche ore un baraccone di legno che comprendeva un palcoscenico con annessi camerini sul retro e davanti una platea per un centinaio di posti a sedere  su dure quanto scomode sedie pieghevoli. Era il Teatro, possibile in un piccolo ma civile centro, portato da una compagnia di giro, con una matura primadonna, un giovane primattore e un gruppo di caratteristi, a impinguare i quali in vista del copione venivano radunati giovani del posto in cambio di pochi spiccioli e l’ambito privilegio di entrare gratis e di comparire sul palcoscenico.

         I manifesti erano altisonanti, il repertorio che svariava da “Romeo e Giulietta” a “Pia de’ Tolomei”, da “Francesca da Rimini” a “Santa Chiara d’Assisi”. Da immaginare la cinquantenne primadonna nelle vesti della quattordicenne Giulietta o della sedicenne Chiara, la recitazione declamata secondo la moda del tempo e le scenografie scrostate e sbiadite, i costumi addosso alla corpulenta Giulietta, il suo bamboleggiare, l’urlare degli attori e il belare delle comparse intimorite.        

          Oggi tutto questo non c’è  più: ma allora c’erano intatti  il fascino, la magia, i sogni. Io che seguivo affascinato le poche volte che mi era dato di seguire lo spettacolo, le vicende che mi proponevo di scrivere per questo o quel personaggio, il proposito  mai realizzato di far leggere qualche copione già pronto… Sogni, ma quante speranze, quante fantasticherie, quante illusioni destinate a rimanere tali!

          Comunque di appena decenti ricordo oggi al Cinema Teatro Primavera una “Morte Civile”  di Giacometti interpretata da un noto Gastone Monaldi e un “Barbiere di Siviglia” che per tutta orchestra poteva contare su uno strimpellato pianoforte. Roba da poco, eppure sia il dramma che l’opera non li ho più dimenticati. E non avevo al massimo che otto anni! Chissà se altrettanto potranno ricordare due annoiatissimi ragazzini appesi a un palco del Valle, portati a vedere la peggiore edizione “moderna” del “Romeo e Giulietta”, con un bel Romeo (Aldo Reggiani) e una orrenda Giulietta, piccola, magra e con un grosso testone che la faceva somiglire a Charlie Brown. Da dimenticare in fretta, secondo me!

         Per tornare alla mia “povera” infanzia, non posso dimenticare Pasquale il gelataio che passava col carrettino a vendere gelati da due soldi, da quattro e dalla favolosa mezza lira!, di cui  devo avere già parlato. Anche dei coni da due soldi estorti ogni tanto a mamma. Chi ne mollava due all’anno era papà. Uno a mezzanotte  quando passava il treno che portava Liliana alla colonia marina di Pesaro e l’altro per la festa del patrono sant’Antonio. Entrambi da ben cinquanta centesimi, il cui sapore doveva bastarci per un intero anno. Ci si riconoscono i ragazzi di oggi capaci di affogare in  quotidiane ciotole dai mille e un gusto?

          Non per questo ci atteggiavamo a vittime. Solo a volte costretto allo sportello anche al mattino della festa mi dilungavo a fantasticare che io a un figlio per premio un bel gelato glielo avrei regalato. Ma non erano che sterili sogni.

         Sogni che riusciva a realizzare a volte soltanto Pietro. Per esempio a farsi comprare un violino di seconda mano per le insistenze di mamma che sognava di aveve un figlio musicista. O un paio di enormi pesantissimi sci pr partecipare alle gite  al Terminillo col “treno della neve”. Morivo dalla voglia di andarci almeno una volta anch’io. E la volta venne. Ma alla partenza antelucana io dovetti restare a letto con febbrone e mal di gola. E per vendicarmi mi rifiutai per sempe  di indossare i calzoni “alla zuava” quando li smise il fratello  sportivone.

         Il quale frequentava un tipo di scuola dove le vacanze erano all’ordine del giorno, dove era permesso leggere le storie di Petrosino, Fantomas e ciclopici romanzoni in quattro volumi dal titolo goerthiano “Mignon”. A me non spettava mai una vacanza. Tutti i giorni il viaggetto a Terni a invidiare le mucche nei prati che beate loro non avevano mai un compito in classe di matematica da fare. Mai “fare sega” come tutti. A giustificarle erano tassativamente obbligati i genitori e i miei non potevano perché perennemente inchiodati al maledettissimo ufficio. Unici scioperi autorizzati e quindi senza giustificzione, i cortei al grido di “Nizza, Savoia e Corsica” che il goverrno rivendicava.

           La misura di quanto,  rispetto a oggi, fossimo poveri senza lamentarcene troppo, ce la dava il freddo che soffrivamo d’inverno. Oggi ci sono bambini che ignorano che cosa sia il fuoco. Per loro il riscaldamento lo danno gli anonimi radiatori e grazie a loro le case sono tiepide e i letti abbastanza caldi la sera. Durante la mia infanzia, unica fonte di calore era il camino della cucina. Che per rendere comodi i fornelli a carbone - per mantenere vividi i quali si usava la ventola da agitare nella sottostante apertura - il fuoco veniva acceso in alto, per cui  il viso avvampava, mentre il resto del corpo – piedi compresi – gelava. Con le braci di legna stiepidivamo le stanze dentro ai bracieri profumandoli con bucce di arance. Più tardi subentrarono le stufe, ma ugualmente l’ufficio restava gelido e allora non ci restava che portare da casa le padelle bucate delle caldarroste  piene di braci che il vento manteneva vive.

         Nel nostro caseggiato abitò per un  certo tempo  una  napoletana che per noi era “la signora grassa” che devo avere già nominato, la quale trascorreva le giornate seduta con un braciere sotto le lunghe vesti. Non faceva altro e ci è rimasto un mistero che cosa desse da mangiare al povero marito, mentre lei, per essere così grassa doveva sbocconcellare in continuazione.

         A questo punto il volenteroso lettore potrebbe pensare che eravamo persone tristissime impegnate perennemente a grattarsi i geloni sotto una montagna di stracci. Niente di tutto questo, almeno in parte. Trascorso il difficile inverno molto umido a causa del fiume che ci circondava, Pasquetta dava inizio  alle “poggiate”, o pic-nic sull’erba dei poggi o in riva al fiume, più tardi ai bagni. Ognuno si sceglieva la comitiva, in seno alla quale appartandosi si amoreggiava o più semplicemente ci si intratteneva in ingenui “giochi di società” o si ballava al suono di una volenterosa fisarmonica,  si merendava con pane e frittata portato da casa,  e intanto si scherzava e rideva e quasi sempre si tornava soddisfatti a casa. Del tutto improbabili la noia, la stanchezza, i musi lunghi e insoddisfatti dei ben più dotati giovani di oggi.